venerdì 7 gennaio 2011

Disoccupazione: il rischio è una rivolta generazionale


Il messaggio di fine anno di Giorgio Napolitano ha ratificato lo stato di emergenza in cui si trovano i giovani italiani nel rapporto col lavoro. Secondo gli ultimi dati Istat il tasso di disoccupazione giovanile è al 28,9%, con un aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a ottobre e di 2,4 punti rispetto a novembre 2009. Nel meridione supera abbondantemente il 35%. Si tratta del livello record dall'inizio delle serie storiche a gennaio 2004. Quasi un giovane italiano su tre è disoccupato. Inoltre secondo l’Ocse in Italia arriva quasi al 20% la percentuale dei giovani lasciati indietro, i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che hanno abbandonato la scuola senza un diploma e non lavorano. È il terzo peggiore dato dell’area, dopo Messico e Turchia. Segno che l’istruzione italiana non riesce a gestire in maniera adeguata la transizione scuola-posto fisso. 
A buon ragione il Presidente della Repubblica ha raccomandato che la disoccupazione giovanile diventi l’«assillo comune della nazione», perché in caso contrario l’Italia rischia di perdere la partita del futuro. Che molti giovani guardino con angoscia e preoccupazione il loro futuro è comprensibile. Per la prima volta nel dopoguerra i figli sono destinati a stare peggio e non meglio dei padri. Per carità, questo accade anche nel resto dell’Occidente; ma solo in Italia si fa poco o nulla per porvi rimedio.
Per ripartire la priorità deve essere investire in ricerca e innovazione (ambiti storicamente sottovalutati da tutti gli ultimi governi, sia di destra sia di sinistra). Passa infatti da qui la crescita del lavoro. Ma non vi può essere solo lo Stato a gestire il processo di rinnovamento: anche le imprese private devono fare la loro parte. Lo studio universitario in molti casi deve essere riformato in funzione della creazione di canali diretti col mercato del lavoro. L’attuale debito pubblico non può poi essere lasciato sulle spalle delle generazioni future: qui sarebbe utile seguire l’esempio inglese del “meno spese, meno tasse”.
Le problematiche lavorative si sommano alla pessima visione che hanno i giovani d'oggi  della politica. D'altronde i dati sull’astensionismo registrati alle ultime elezioni provano che la classe politica italiana è sempre più distante dai suoi figli. Le nuove generazioni sono quelle che vanno meno a votare. Questo perchè in Italia c’è un grossissimo problema di rappresentanza, dovuto al fatto che i partiti della seconda repubblica non sono riusciti a (o non hanno voluto) promuovere un vero ricambio generazionale. Sempre guardando all’Inghilterra, i leader della coalizione di governo hanno rispettivamente 44 (David Cameron) e 43 anni (Nick Clegg). Dove sono invece i trentenni e quarantenni italiani? Da noi politici di primo piano come Matteo Renzi (35) o Italo Bocchino (43) sono eccezioni che confermano la regola. 
La sfiducia nella politica è innanzitutto sfiducia nel partito. Se esso non riesce a garantire al suo interno un sistema democratico - e basato sul merito - di selezione della classe dirigente il giovane non ha stimoli e ragioni per mettersi in gioco e dare il suo tempo alla politica. La conseguenza è ritrovarsi da una parte con una classe politica sempre più vecchia e dall’altra con tanti giovani sfiduciati e arrabbiati. Questa mancanza di comunicazione porta con sè il rischio di una rivolta generazionale (figli contro padri). E' nell’interesse del Paese iniziare a lavorare tutti insieme per prevenirla. 

Vignetta di Fei