venerdì 27 novembre 2009

Breve riflessione sulla Ru486


Rimandato ancora il via libera alla pillola abortiva Ru486, in grado di essere utilizzata come alternativa all'aborto chirurgico. Il farmaco è da tempo presente in quasi tutti i paesi occidentali (dagli USA alla Francia, dalla Germania all'Inghilterra alla Tunisia). La commissione sanità del Senato dopo aver ricevuto già il consenso dell'Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha richiesto un parere del Governo, col chiaro intento di ritardare il via libera alla Ru486. Non si capisce che parere tecnico possa dare il Governo sull'efficacia di un farmaco e su una materia medica.
La deputata PdL Barbara Saltamartini, al Corriere della Sera di oggi, alla domanda "lei cosa spera che dica il governo di questa pillola?" risponde: "Vorrei che la proibisse. Ho troppa paura della cultura che si potrebbe creare avendo a disposizione una pillola che provoca l'aborto così facilmente". Ecco che la colpa della Ru486 viene svelata: è troppo facile da usare. Quello che dovrebbe essere il suo merito, ossia lo scongiurare alla donna l'iter travagliato e doloroso di una operazione chirurgica, diviene invece il motivo per osteggiarla.

(nell'immagine una vignetta inglese: evidentemente tutto il mondo è paese, ma noi restiamo paese più a lungo)

lunedì 23 novembre 2009

Il buio sugli anni di piombo


È difficile trovare in giro film che parlino degli anni di piombo italiani, quel periodo che inizia con l’autunno caldo del 1969 ma non si sa bene dove finisca. Probabilmente il 1988, quando le Brigate Rosse compiono il loro ultimo assassinio uccidendo il senatore DC Roberto Raffili, non è l’anno giusto. Come lasciare fuori infatti la stagione stragista di Cosa Nostra? E le nuove BR, che tra il 1999 e il 2003 uccidono prima Massimo D’Antona e poi Marco Biagi? Evidentemente non si può. Allora scopriamo che i cd. anni piombo non è che siano finiti tanto tempo fa: l’ultimo rigurgito di tensione armata viene cancellato solo il 2 marzo 2003, con lo scontro a fuoco sul treno Roma-Firenze che porta alle morti del brigatista Mario Galesi e del sovrintendente di polizia Emanuele Petri ed all’arresto della compagna di Galesi, Nadia Desdemona Lioce.
Forse la difficoltà di avvicinarsi con una prospettiva storica a questo periodo deriva proprio dal fatto che abbia avuto termine da poco. Tuttavia per chi come me è nato alla fine degli anni ’80 gli anni di piombo sono il buio. A scuola a malapena i professori riescono ad arrivare alla bomba atomica e la resa del Giappone. A volte magari spiegano un po’ a grandi linee il sessantotto perché loro l’hanno fatto e hanno lottato per qualcosa. Ma poi si rimane con un buco che viene lasciato lì.
Per questo ogni iniziativa giornalistica o artistica o storica che riguarda un periodo così poco conosciuto dai giovani è importante. Come si fa a comprendere l’Italia di oggi e ignorare quegli anni tragici che hanno vissuto solo i nostri padri? Non si può. Anche per questo il film “La Prima Linea” a suo modo è importante. Dispiace vedere tante polemiche intorno a quello che in fondo, semplicemente, è un bel film che racconta vicende drammatiche non così lontane da noi.
La pellicola racconta una storia del gruppo terroristico omonimo Prima Linea, attraverso gli occhi di uno dei suoi fondatori, il giovane Sergio Segio. Il viaggio compiuto con un gruppo di ex combattenti nel gennaio dell’82 verso il Polesine con l’obiettivo di assaltare il carcere di Rovigo per liberare la sua compagna Susanna Ronconi, è la scusa che coglie il regista per illustrarci la parabola discendente della vita terroristica di Segio dai primi attentati al pentimento forse avvenuto già prima dell’arresto.
Ciò che traspare dal film è proprio la solitudine dei terroristi, che vivono isolati in piccole stanze, sempre in fuga, e che vedono mano a mano allontanarsi il supporto della classe operaia nei confronti delle loro azioni, spinte alla fine da un solitario delirio di onnipotenza. Emblematico di come Prima Linea stesse perdendo il proprio controllo abbandonandosi ad un’escalation di violenza gratuita è l’assassinio di Emilio Alessandrini, il giudice che scoprì la pista nera della strage di Piazza Fontana e che ebbe il torto di avvicinarsi troppo ai componenti del gruppo con le sue indagini, “un giudice temuto dai servizi deviati per essere troppo rosso, ucciso dal terrorismo rosso perché efficiente e democratico” (come dice P. Leporace, nel libro Toghe rosso sangue).
Gli attacchi della carta stampata non sono mancati nei confronti della pellicola. La critica più diffusa al film è che non racconta il contesto storico del sessantotto e degli anni di piombo; tuttavia non credo fosse questo il compito affidato al film dai suoi autori. I film raccontano storie, non la storia. D’altra parte per riuscire ad avere una visione generale e completa di quel periodo non basta neanche guardare qualche documentario, o leggere un libro. Inoltre lo stesso sottotitolo del libro “Miccia Corta” di Sergio Segio a cui si è ispirato il film parla di “Una storia di Prima Linea”.
È molto triste sentire il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ex comunista Sandro Bondi, che pur ha riconosciuto da parte del film la “netta condanna delle responsabilità di chi si è macchiato di orrendi delitti in nome di un’ideologia criminale”, dire anche: “ritengo personalmente che la sopravvivenza nella storia del nostro Paese di rigurgiti di violenza politica, nonché il rispetto che tutti, a partire dalle istituzioni, dobbiamo alla memoria di tutte le vittime del terrorismo, per non parlare della doverosa riservatezza che i protagonisti di quella stagione dolorosa dovrebbero mantenere, imporrebbero di non usare fondi pubblici per finanziare questo genere di film”. Non si capisce allora cosa debba fare un film sul terrorismo in Italia per avere l’accesso ai fondi pubblici. Dopo le polemiche sulla questione comunque il produttore Lucky Red vi ha rinunciato, pur avendone pieno diritto. Probabilmente la politica non è ancora pronta per un dibattito aperto ed una analisi scevra da preconcetti sul tema. Resta comunque il fatto che gli anni di piombo sono una parte della nostra storia, seppur lasciata in un angolo.
(nell'immagine, il giudice Emilio Alessandrini ucciso da Prima Linea)

giovedì 19 novembre 2009

Liceo Gandhi: una storia italiana


Il 14 novembre all’alba la polizia irrompeva in un liceo di Milano per sgomberarlo. La sera prima gli studenti avevano occupato la scuola. Strana occupazione tuttavia: non per protestare contro l’ultima riforma di questo o quel ministro dell’istruzione, ma per salvare la loro scuola.
Tutto iniziò l’estate scorsa, quando l’11 agosto il Comune di Milano comunicò agli studenti con una lettera l’intenzione di chiudere la scuola, con bollettini di iscrizione già pagati e a poco più di un mese dall’inizio. Una decisione grave perché il Gandhi di piazza XXV aprile non era una scuola normale: era l’ultimo liceo civico paritario italiano. A settembre il Gandhi contava circa 80 studenti suddivisi in quattro indirizzi: liceo classico, linguistico, sociopsicopedagogico, e scientifico, per un totale di 20 classi di cui, all'avvio dell'anno scolastico 2009/2010, ne rimanevano aperte soltanto due, le quali tuttavia non sono state attivate grazie ad un appiglio burocratico. La conseguenza è che studenti che hanno il diritto di terminare i propri studi presso il liceo a cui sono iscritti si ritrovano da settimane, giorno e notte, per strada e in tenda a presidiare la loro scuola. Tuttavia, anche dalle voci dei suoi studenti, si intuisce come lo smantellamento della scuola non sia iniziato solo quest’estate. Se molti suoi alunni sono venuti a conoscenza dell’esistenza del Gandhi tramite il passaparola, significa che c’è stata una volontà pregressa da parte delle Istituzioni di non pubblicizzare questa realtà. Ciò lascia attoniti perché un liceo serale dovrebbe essere per una città che tiene a sé stessa un vanto e non un peso.
Il Gandhi era davvero un'istituzione importante. Aperto da oltre cinquant’anni, consentiva a tanti lavoratori di non rinunciare alla possibilità di raggiungere un diploma di liceo con un costo veramente contenuto di 258 euro annui: circa un decimo di quello che possono chiedere licei privati paritari. Per molte persone era questo quindi l’unico luogo accessibile che consentiva di studiare pur lavorando. La protesta degli studenti ha ricevuto la solidarietà di molti esponenti del mondo della cultura cittadina, tra cui Dario Fo e il ballerino Roberto Bolle, ex studente della scuola.
Formalmente le ragioni che hanno indotto il Sindaco Letizia Moratti e l’assessore Mariolina Moioli a chiudere la scuola sono la mancanza di fondi e la carenza di studenti. La prima è discutibile, considerato anche i quattro milioni di euro che il Comune ha elargito quest’anno come contributi per l’acquisto di materiale scolastico a tutti gli studenti delle scuole primarie e secondarie di Milano: “mi risulta che non ci siano altre municipalità a prevedere questi contributi; un modo per essere vicini alle famiglie in un periodo non facile, ma anche per attuare la nostra Costituzione, che garantisce ai capaci e ai meritevoli il raggiungimento dei più alti gradi degli studi” le parole della Sindaca. Inoltre i professori del Gandhi sono di ruolo: ciò significa che comunque non andavano a pesare sul bilancio del Comune e una volta soppresse le classi si sono ritrovati a far nulla. La seconda ragione è stata smentita dal TAR che ha concesso la sospensiva nei confronti dell’atto di chiusura del Comune, accogliendo il ricorso degli studenti. Nonostante questo il Comune non ha riaperto la scuola. Nemmeno le due classi che dovevano rimanere aperte hanno potuto iniziare le lezioni.
Il Gandhi era stato già occupato e sgomberato due volte. Comunque la si veda, la vicenda è indice della mentalità malata che pervade la politica, a livello sia locale che statale, che vede nell’istruzione e nella ricerca medico-scientifica solo luoghi di tagli, accomunati da ideali un po’ retrò ben sacrificabili alla ragion di stato economica. Credo che i pochi studenti del Gandhi non giustificassero la sua chiusura, bensì una sua implementazione. Una società che guarda al futuro non può prescindere da educazione e cultura. Il rischio è cadere in un clima di barbarie. Lasciar morire una scuola è un gravissimo delitto, perché la scuola è la società.

sabato 14 novembre 2009

Era meglio il lodo Alfano


Mai come in questi giorni appare evidente quale vittoria di Pirro sia stata la dichiarazione di incostituzionalità del lodo Alfano. In primo luogo perché durante la sua vigenza ha consentito comunque a B di sfuggire alle condanne del processo Mills, dove anche la sentenza della Corte d’Appello di Milano ha riconosciuto la sua responsabilità per la corruzione giudiziaria dell’avvocato inglese. In secondo luogo per la presentazione del disegno di legge sul processo breve. Se con questo non siamo alla morte dell’ideale di giustizia, poco vi manca.
Fa ridere l’incipit che Gasparri e i suoi amici hanno dato a questo ddl, “Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell'articolo 111 della Costituzione e dell'articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo”, quando il vero scopo è quello di salvare B dai suoi processi al costo di passare come Attila sulle esigenze di giustizia di quei cittadini, più sfortunati degli altri, che si ritrovano coinvolti in processi con controparti ricche e potenti.
La durata massima di sei anni e i due anni imposti per ogni giudizio come tempo “ragionevole” vanno contro l’idea stessa di avere un processo breve. Se già oggi gli avvocati spingono ad allungare i processi con richieste defatigatorie e cavilli giuridici in vista del miraggio della prescrizione, possiamo ben capire cosa avverrà con l’entrata in vigore di questa legge. Anche il più incapace degli avvocati avrà vita facile a raggiungere l’estinzione del processo. E ciò senza considerare come nella realtà un processo serio e complicato come può esserlo uno per fallimento, o corruzione, o frode fiscale, o abuso d’ufficio, è quello che richiede più tempo per essere concluso.
Con questa legge i processi non saranno più brevi, semplicemente non si faranno.
In pratica l’ambito di applicazione della prescrizione breve è limitata ai reati dei politici, degli imprenditori, dei banchieri, degli industriali. Sono esclusi gli incensurati, e già questo è un profilo di incostituzionalità dato che prima della condanna un incensurato e un pregiudicato sono entrambi presunti innocenti, e non si capisce perché quest’ultimo debba essere discriminato. Cioè lo si capisce benissimo: perché certa gente incensurata lo resti a vita.
Era meglio il lodo Alfano perché almeno toccava solo lui. Il ddl sulla prescrizione compromette l’intero sistema giudiziario. Lo compromette riguardo ai reati futuri, che diverranno quasi impossibili da perseguire, ma anche nei processi in corso. Entrando in vigore cancellerà, in parte o totalmente, ad esempio i processi Parmalat, clinica Santa Rita, Cirio, Thyssen, rifiuti in Campania. Quelli più odiosi. Al contrario gli immigrati, e i poveracci in generale che delinquono per necessità, quelli che fanno dentro e fuori dalle carceri, a loro sarà concesso il processo “lungo”.
Era meglio il lodo Alfano ed è molto triste dirlo. Perché lasciarlo in vigore avrebbe voluto dire calpestare la Costituzione, legalizzare l’illegalità voltando lo sguardo a forza da un’altra parte, sottomettersi ad un padrone più uguale degli altri.
Basta poco per comprendere come questo ddl sia giuridicamente imbarazzante, voluto e sostenuto da una classe politica che ormai non ha più dignità, che disprezza il cittadino ed il suo bisogno di giustizia, che rimane lì chiusa nei suoi palazzi a pensare solo come rimanerci più a lungo.

martedì 10 novembre 2009

Lo spettro della prescrizione breve


Il progetto di una nuova legge da presentare in Parlamento per consentire a B. di sfuggire al processo Mills (ma anche a quelli Mediaset e Mediatrade) è realtà. Le mediazioni procedono. Il presidente della Camera Fini lascia trapelare che per preservare la governabilità della maggioranza è possibile arrivare a un compromesso. L’idea di B. e del suo avvocato, nonché parlamentare nonché componente della Commissione Giustizia, Niccolò Ghedini è quella di diminuire ulteriormente i termini di prescrizione per alcuni determinati reati. La c.d. prescrizione breve introdurrebbe la “ragionevole durata” per un processo: se questo non si concludesse per i tre gradi di giudizio in sei anni, scatterebbe la prescrizione. Fini e il suo rispettivo avvocato Giulia Bongiorno, nonché deputata nonché presidente della Commissione Giustizia, stanno cercando di limare questa norma: propongono di restringerle il campo applicandola solo a chi sia “incensurato”, e di far scattare la prescrizione se entro un limite di tempo dall’inizio del processo non si sia arrivati alla sentenza di primo grado.
In ogni caso i problemi cui i berluscones si trovano di fronte nel strutturare una tale legge sono seri. Appare infatti scontato che una tale forma di scudo vada a toccare altre migliaia di processi. Siamo di nuovo di fronte ad un progetto di legge ad personam che mette a rischio la stabilità e la, seppur già bassa, linea di galleggiamento del sistema giudiziario. A prescindere dalle motivazioni politiche che spingono B. a cercare protezione rispetto al rischio di una sua caduta dovuta ad una possibile condanna giudiziaria, il processo penale non ha i mezzi per sostenere una tale norma. Questo a causa della sua struttura sic et simpliciter, e a causa di carenze strutturali e di risorse (sia economiche che umane).
Il legislatore del 1988 emanando il nuovo codice di procedura penale è caduto in un eccesso di garantismo che ha comportato l’allungamento dei processi rispetto al previgente sistema inquisitorio e la loro eccessiva durata. In particolare il principio che obbliga la formazione della prova in contraddittorio è la causa di molti mali del processo penale: escludendo la validità delle prove raccolte durante le indagini, obbliga il PM a raccoglierle una seconda volta, spesso andando incontro a “misteriosi” cambiamenti di versione dei testi chiave. Tutto ciò dovrebbe essere sempre ricordato a quei politici che attaccano la magistratura tacciandola di inadempienza di fronte ai lunghi tempi processuali. Il magistrato lavora con i mezzi che gli vengono forniti dalla legge. E le leggi le fanno i politici.
A ciò c’è da aggiungere come la disciplina della prescrizione sia già stata modificata pesantemente nel 2005 con la legge c.d. ex-Cirielli, la quale ha abbassato i termini prescrizionali rispetto al passato anche per delitti di rilevante gravità, toccando soprattutto gli illeciti tipici della c.d. criminalità dei colletti bianchi (peculato, corruzione, concussione, bancarotta etc.) e facendo sorgere un sospetto: e cioè, prendendo a prestito le parole dei proff. Fiandaca e Musco, “che il perseguito abbassamento dei tempi della prescrizione sia funzionale all’obiettivo di consentire un più rapido oblìo di quelle figure di reato di cui solitamente si rendono responsabili – appunto – autori primari appartenenti ai ceti sociali privilegiati”.

mercoledì 4 novembre 2009

L'incredibile influenza A. Disinformazione mediatica e business.


Personalmente considero veramente una pazzia la conta che tutti i mezzi di comunicazione stanno facendo dei morti a causa della c.d. influenza A. Dal Corriere al Tg1 alla Stampa al mitico Studioaperto. Tutti fanno a gara a trovare l’ultimo morto di influenza. Qui stando dando tutti di matto. Non vedo altre spiegazioni. O meglio, le vedo ma non le anticipo.
Dei 18 morti per influenza A 17 soffrivano di patologie precedenti, sempre più gravi della stessa influenza, intervenuta solo in un secondo momento ad aggravarle. Ma allora se uno soffre di polmonite o diabete o è malato di tumore come si fa a sostenere che sia morto per l’influenza suina e non per quelle patologie che da giorni o mesi o anni indebolivano il suo fisico? Se dovessimo togliere quei 17 morti ci ritroveremmo con 1 solo morto direttamente a causa del virus A/H1N1. A fronte di 250.000 ammalati in Italia. Ma anche questa è una stima solo approssimativa, e molto difficile da elaborare: si sa che le persone più ipocondriache tendono a considerare un raffreddore come una potente influenza intasando i prontosoccorsi, ma d’altra parte moltissima gente si cura a casa da sola senza nessun problema, spesso non smettendo nemmeno di lavorare.
Una recente analisi, condotta per stimare la mortalità in Italia attribuibile all’influenza, segnala come ogni anno si registrerebbero circa 8.000 decessi.
L’allarme pandemico causato dal virus A/H1N1 e la forte concentrazione di comunicazioni tese ad allertare la popolazione circa la capacità diffusiva di questo nuovo virus - come dichiarato dal dott. Emilio Mortella, Presidente di Ageing Society Osservatorio Terza Età - rischiano di porre in secondo piano la normale ma più pericolosa sindrome influenzale, ritardando l’annuale campagna di vaccinazione per quest’ultima rivolta soprattutto agli anziani. Ci potremmo trovare dunque davanti ad un paradosso: a causa del procurato allarme per una influenza in realtà più lieve della stagionale, ci ritroveremo con più morti di influenza stagionale rispetto agli altri anni.
A questo punto la normale influenza sarebbe davvero da considerare come una pericolosa epidemia (ma non comunque una pandemia, dato che i soggetti esposti a pericolo appartengono a categorie ben individuate).
Lo stesso povero viceministro alla Salute Ferruccio Fazio in questi giorni è stato sbeffeggiato dai media per aver detto delle ovvietà e aver cercato di contenere l’allarme infondato: tutti a urlargli “Ferrù, ma cosa dici, non vedi quanta gente muore!”. In verità la mortalità dell’influenza A rimane comunque innegabilmente inferiore a quella dell’influenza normale. Gli stessi giornalisti quando vanno più a fondo sull’argomento, sono costretti a enumerare questi dati. Ma allora perché tutti i maggiori quotidiani nazionali negli ultimi giorni continuano a dedicare cubitali e allarmistici titoli sulle loro prime pagine? A pensar male molto spesso ci si azzecca. E in questa materia in passato pensando male spesso ci hanno azzeccato. Io ho ancora in mente l’allarme planetario che lanciò l’OMS in occasione dell’influenza aviaria. Terribile pandemia che in Italia causò la morte di due o tre cigni. Cosa alquanto tragica. Nonostante ciò medicinali e fantomatici vaccini (dato che non ne esistevano di veri) vennero venduti a vagonate, e tutto a causa della campagna disinformativa portata avanti dall’OMS e dai media in seguito alle pressioni delle lobbies farmaceutiche, che giusto uscivano da un periodo di basse vendite e profitti.
Già quest’estate, quando l’allarme veniva dall’Inghilterra, il governo italiano aveva prenotato centinaia di migliaia di vaccini, con gran gaudio delle industrie farmaceutiche produttrici. Il 7 agosto il Presidente del Consiglio autorizzava il Ministero del lavoro e della salute ad acquistare i vaccini contro l’influenza “A” per proteggere dalla prevista epidemia almeno il 40% (!) della popolazione. Molti avevano criticato l'acquisto perchè ritenuto spropositato nella quantità. Fortunatamente ora verranno utilizzati, anche se non penso proprio tutti. Con ciò non voglio dire che le persone più deboli e a rischio non facciano bene a vaccinarsi anche contro la suina, anzi. Voglio solo far notare però che questi procurati allarmi sono ciclici, comportano un uso criminale dei mezzi di informazione creando un panico ingiustificato, distraggono l’opinione pubblica da questioni ben più importanti e rilevanti, e regalano ad una certa industria una montagna di denaro.

lunedì 2 novembre 2009

Alda Merini: scomparsa di un'intellettuale

L’affetto con cui la rete ha risposto alla notizia della morte della poetessa Alda Merini è allo stesso tempo sia incredibile che rassicurante. Incredibile perché dilagante, vivo e sincero, manifestato da migliaia di internauti su blogs e social networks. Rassicurante perché indice di una passione culturale che sembrava quasi estinta di questi tempi nel nostro Paese.
Alda Merini era una persona strana: piccola, anziana, poco telegenica. Ma dotata di un’immensa cultura della vita che le consentiva di non dire mai cose banali. L’immenso talento poetico segnato dalla sofferenza e dalla voglia di rinascita le ha dato montagne di premi, arrivati soprattutto nel periodo successivo alla permanenza in manicomio. Era stata proposta per il Nobel. Nel 2002 era stata anche insignita del titolo di Commendatore al merito della Repubblica Italiana dal Presidente Ciampi. Tuttavia nei suoi confronti l’Italia è stata indegna, come per tanti altri intellettuali.
Soprattutto ora che il Paese sta attraversando una innegabile crisi morale e culturale, la perdita della coscienza della Merini si fa più pesante. Mi accorgo sempre più spesso come gli intellettuali veri stiano sempre più scomparendo. I media e la madre televisione in particolare ne sono la riprova. Gli intellettuali sono stati sostituiti dagli opinionisti, dotati peraltro di ben scarsi titoli. Una volta avevamo Pasolini che faceva televisione. Oggi?
A parte qualche comparsata in seconda serata la Merini è stata ignorata dalla TV. Peccato, su questo mezzo si sente la mancanza di persone che facciano pensare.
Alda Merini è morta ieri pomeriggio a Milano. Aveva 78 anni. Aveva scelto di vivere in una piccola casa sui navigli in condizioni disagiate. Per illustrare l'irrequietezza e la generosità del suo animo allego un’intervista significativa, rilasciata un anno fa.
«Sa perché sono entrata in manicomio? Perché la persona che amavo più di me stessa, mio marito, mi ha tradito, facendomi passare per demente. Hanno creduto a lui e non a me perché era più forte, era quello che portava i soldi a casa. Si è disfatto di me. Però a volte penso che se non avessi provato sulla mia pelle l’esperienza tremenda del tradimento, e quindi quella del “lager”, dopo non avrei scritto gran parte delle mie poesie più belle. Dopo tutto, volendo usare una metafora religiosa, se non ci fosse stato Giuda non avremmo avuto il Cristianesimo. Con gli anni ho capito che quel “mezzo” terribile, che ha sfasciato una famiglia, e che poteva distruggere la mia anima per sempre, è stato una linfa vitale per la mia poesia. Non avrei mai potuto scrivere la mia raccolta più bella, “La terra santa”. Ho odiato mio marito per il male che mi ha fatto. Uscita dal manicomio non ho raccontato nulla di ciò che mi era capitato né a lui né ad altri. Poi, dopo cinque anni, mi sono messa a scrivere “L’altra verità. Diario di una diversa”, che nessuno voleva pubblicare, visto che per la prima volta raccontavo gli orrori che subivamo noi matti. Avevo messo il dito nella piaga. Lui, il mio primo marito, era in fin di vita. Io, nonostante tutto, l’ho curato fino all’ultimo. Quando ha letto quelle pagine, piangendo mi ha chiesto di perdonarlo, non poteva credere che io fossi stata vittima, insieme a tanti altri, di tali soprusi».

(fonte dell'intervista: Resistenze Culturali)