domenica 27 dicembre 2009

Matera: come avere la stazione ma non la ferrovia


“Matera, stazione di Matera!”: chissà cosa non farebbero molti materani per sentire un giorno, finalmente questo annuncio dall’altoparlante della loro stazione. La città dei Sassi è infatti l'unico capoluogo di provincia italiano a non essere servito da una stazione delle Ferrovie dello Stato, nell’unica regione senza aeroporti: la Basilicata. Ad essere precisi una piccola ferrovia privata tra Bari e Matera c’è ed è gestita dalle Ferrovie Appulo Lucane (FAL): con questa ci si impiegano 90 minuti per percorrere 50 km: un servizio decisamente inadeguato e scadente. In realtà ci sarebbe bisogno di una linea che colleghi la città al resto d’Italia, soprattutto agli altri centri principali della regione quali Potenza e Metaponto, per il turismo ma anche per un rilancio economico generale. La mancanza di vie di comunicazione primarie sfavorisce moltissimo l’iniziativa imprenditoriale nei centri che ne soffrono.
La fermata delle FS più vicina a Matera è quella di Ferrandina, comune di 9.000 abitanti posto a 34,5 km dal capoluogo di provincia e a circa 45 minuti di autobus. Il sito di Trenitalia indica che ci vogliono più di 11 ore di treno per arrivare a Matera da Potenza, distanti in automobile solo un centinaio di km. Chiaramente in questo caso la via più corta è arrivare in treno da Potenza a Ferrandina e poi prendere un bus-navetta per Matera.
Il dramma ferroviario di Matera inizia tra il 1972 ed il 1974, quando viene chiusa a causa del mancato ammodernamento e per l’eccessivo degrado degli impianti la linea tra Matera, Ferrandina, Pisticci e Montalbano Jonico, la quale collegava fin dal 1930 la città alla linea principale delle FS.
I lavori di realizzazione di una nuova tratta ferroviaria Ferrandina-Matera-La Martella iniziano nel 1986 ma a tutt'oggi, dopo 23 anni, non sono ancora terminati. Nel frattempo però è stata costruita una stazione: la famosa Stazione “Fantasma” delle Ferrovie dello Stato a Matera, un’opera mai conclusa e costata oltre 500 miliardi delle vecchie lire. Oggi è in completo abbandono.
I Sassi di Matera sono un patrimonio dell'umanità dal 1993 e sono stati il primo sito dell'Italia meridionale ad essere iscritto nella lista dell’UNESCO. Per un Paese come l’Italia che potenzialmente potrebbe vivere soltanto di turismo investire in collegamenti ferroviari è un obbligo.
In Spagna c’è un luogo molto simile a Matera: Segovia, città con 57.000 abitanti (poco meno dei 60.000 di MT) e nominata anch’essa patrimonio dell’umanità per merito suoi monumenti (tra cui il famoso acquedotto romano). La sua economia è basata principalmente sul turismo cittadino e pur essendo posta su una linea ferroviaria morta (come dovrebbe essere quella da completare a Matera) è raggiunta addirittura anche dall’alta velocità spagnola. Inoltre essendo situata a circa mille metri di altitudine e circondata da rilievi che arrivano fino ai 2430 m del Pico de Peñalara non si può certo dire che sia favorita dalla sua ubicazione.
Mi permetto un’amara considerazione: è diventato veramente difficile nel nostro Paese dotarsi di infrastrutture necessarie alla popolazione ed ai suoi bisogni primari e fondamentali (com’è la circolazione delle persone), se queste non sono direttamente convenienti per chi dovrebbe costruirle. Credo che in Italia non si guardi al domani ma solo al giorno dopo.

(nell'immagine la Stazione FS di Matera, costata circa 550 miliardi di lire e mai completata)

domenica 20 dicembre 2009

Il processo a Marco Travaglio e la nuova strategia della tensione. Analisi del deficit democratico italiano.


La gogna mediatica che sta subendo Marco Travaglio nella più classica delle tradizioni della nostra televisione da seconda repubblica deve allarmare ogni persona che disprezzi la ricerca di un capro espiatorio in seguito all’aggressione subita da Silvio Berlusconi. In particolare deve preoccupare la costante demonizzazione da parte di certe Istituzioni di quegli organi di stampa più critici nei confronti dell’operato del Governo e delle condotte del premier. Ciò che fugge agli schemi di un confronto democratico in Italia è proprio il fatto che la maggioranza si scagli contro quotidiani e giornalisti come si fa verso un partito di opposizione. E in effetti è proprio la mancanza di un forte partito di opposizione ciò che costa all’Italia in questo periodo un importante deficit democratico. Basta andare a rileggersi i principi basilari di un corso di diritto costituzionale per comprendere come il problema italiano riguardi tutto il sistema politico.
Per spiegarvi quale sia importante il ruolo della minoranza al fine del mantenimento dell’equilibrio democratico, voglio riportarvi un passo del manuale di diritto costituzionale dei professori Roberto Bin e Giovanni Petruzzella, uno dei migliori ed il più utilizzato nelle università italiane: “La regola di maggioranza è intrinsecamente ambigua. Infatti, da una parte, è lo strumento attraverso cui i più sono sottratti alla tirannia dei pochi, dall’altro lato può essere il mezzo attraverso cui i più eliminano i meno. Chi ottiene la maggioranza, infatti, può utilizzarla per adottare i provvedimenti che eliminino i soggetti rimasti in minoranza, sicché esiste il rischio della tirannia della maggioranza. Per contrastare questo pericolo le Costituzioni predispongono vari strumenti di tutela delle minoranze. Del resto, se non ci fossero questi strumenti la stessa regola di maggioranza non potrebbe più operare; infatti, se la maggioranza utilizza il suo potere per eliminare le minoranze, queste ultime reagiscono, lottano per la sopravvivenza, non riconoscono più lo Stato come ordinamento comune e, quindi, intaccano la sua legittimazione, aprendo la via alla disgregazione ed al conflitto violento”.
Se il più grande partito espressione della minoranza non fà opposizione, è un problema per tutta la democrazia, a prescindere dalla ragione per cui non vi riesca: in Italia il PD è certamente più frenato da problemi suoi intestini piuttosto che dall’operato della maggioranza. A tutto ciò si aggiunge l’esproprio al Parlamento del potere legislativo: ormai passano solo decreti del Governo e la media lavorativa dei parlamentari è di poche ore al giorno. Basti pensare all’abuso della fiducia, posta anche sulla legge Finanziaria, la quale si è dovuta blindare a causa di quell’emendamento che permette la vendita all’asta dei beni confiscati alla mafia. In questa legislatura il 90% delle leggi è deciso da Palazzo Chigi.
Ma allora se la minoranza non adempie al suo dovere di opposizione è naturale che la maggioranza debba trovare altri soggetti da attaccare per cercare di mantenere il consenso. Questi soggetti sono appunto i quotidiani non allineati con la linea di governo e la magistratura, incaricata in qualche modo di sopperire al ruolo dell’opposizione, non più in grado di bloccare già in Parlamento leggi palesemente incostituzionali. L’intervento di Cicchitto alla Camera è emblematico del gioco politico in atto: “A condurre la campagna d'odio contro Silvio Berlusconi è un network composto dal gruppo editoriale Repubblica-L'Espresso, da quel mattinale delle procure che è il Fatto, da una trasmissione di Santoro e da un terrorista mediatico di nome Travaglio oltre che da alcuni pubblici ministeri che hanno nelle mani alcuni processi, tra i più delicati sul terreno del rapporto mafia-politica e che vanno in tv a demonizzare Berlusconi”. Ad aggravare ancora di più la situazione italiana è il conflitto di interessi di cui gode il nostro Presidente del Consiglio e del potere (esplicito ed implicito) di cui dispone nei riguardi dei 6 maggiori canali nazionali (con varie sfumature). Siamo un paese dove nei telegiornali i fatti sono stati sostituiti dalle opinioni. Basta accendere la TV per essere sommersi solamente dalle opinioni dei “portavoce”.
Se l’Italia si trova al 73° posto della classifica sulla libertà di stampa di Freedom House ci sarà un motivo: nello specifico siamo considerati “Paese parzialmente libero”, al pari di Tonga e sotto a Benin, Namibia, Capo Verde, Trinidad & Tobago. Il processo imbastito a Marco Travaglio, nel Porta a Porta del 16 dicembre 2009 è diretta conseguenza di questa situazione. I giornalisti che riportano i fatti e che adempiono al loro dovere sono diventati il bersaglio della maggioranza. Solo ieri Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, diceva riguardo la bomba inesplosa ritrovata alla Bocconi: “Certo è che colpisce la coincidenza degli attentati con l'ennesimo attacco alla Costituzione, baluardo della democrazia. Si vuole una Repubblica presidenziale, come quella auspicata da Licio Gelli. Si vuole distruggere la Corte Costituzionale, colpevole di avere bocciato il lodo Alfano. Essa è accusata di essere formata da giudici comunisti scelti da Presidenti filocomunisti.”
Da Vespa il ministro Matteoli interviene aggredendo: “Con Togliatti, nel ’48 avevano le pistole in tasca. Oggi non ci sono più le pistole, ma la parola è più dannosa. La parola è la pistola”. Il messaggio che si vuole lanciare è il seguente: c’è un colpevole oltre Tartaglia. Vespa mostra quindi al pubblico Travaglio, reo di aver difeso genericamente il diritto all’odio (come sentimento personale) durante il Passaparola del 14 dicembre 2009. Al riguardo mi viene in mente un verso degli Afterhours: “anche odiare è un diritto, sai?”. Ma non ditelo alla maggioranza.

(riporto, affinché ognuno dei miei 25 lettori possa guardare e riflettere con la propria testa, il video del processo di Porta a Porta: http://www.youtube.com/watch?v=-zg--isSAR8 e video e testo integrali del Passaparola del 14 dicembre 2009: http://voglioscendere.ilcannocchiale.it/2009/12/14/la_diretta_con_marco_travaglio.html)

mercoledì 16 dicembre 2009

La Cipro dimenticata. Alle origini di un caso internazionale.


Per capire il problema di Cipro, unica nazione dell’Unione Europea a non avere il completo controllo del suo territorio, occorre dare uno sguardo alla sua storia più o meno recente. Con la sconfitta della Turchia nella guerra turco-russa del 1877-1878 ed il successivo Trattato di Berlino l’isola di Cipro viene assegnata all’Inghilterra, per la quale vi rimane come colonia fino al 1959, anno in cui ottiene l’indipendenza. Gli anni del dominio britannico non sono facili: gli inglesi vedono Cipro solo come una base militare, e non le garantiscono alcuna forma di autogoverno.
Nel 1955 viene fondato dal colonnello greco-cipriota Gorge Grivas l’Organizzazione Nazionale dei Combattenti Ciprioti (Ethniki Organosis Kyprion Agoniston, EOKA), la quale perseguirà la lotta per l’indipendenza spinta dall’antico ideale dell’énosis, ossia l’unione con la madrepatria Grecia, per decenni sempre osteggiata dalla Gran Bretagna, poiché la persistente separazione tra le due comunità etnico-religiose fu nei fatti uno strumento degli inglesi per mantenere il controllo indiretto di Cipro, secondo la migliore politica del divide et impera. Inoltre la comunità turco-cipriota preferiva di gran lunga essere forte minoranza in una colonia britannica che piccola minoranza all'interno del più vasto stato greco; per questo nel 1957 i turco-ciprioti fondano l’Organizzazione di Resistenza Turca (Türk Mukavemet Teskilati, TMT), individuando la risposta politica all'énosis nella separazione (taksim) fra le due comunità.
La guerra civile tra EOKA e TMT viene sventata nel 1958 grazie all’avvio delle trattative per l’indipendenza, ma il nuovo Stato ha vita breve. La forma costituzionale prescelta comportante la necessità di avere la maggioranza su ogni disegno di legge all'interno di entrambi i gruppi etnici entra presto in crisi. Nel 1963 si accende una vera guerra civile tra le milizie data l’impossibilità per lo Stato di funzionare. Il 4 marzo 1964 le Nazioni Unite autorizzarono l'invio di caschi blu per sostituire la forza di interposizione anglo-turco-greca con l'operazione UNFICYP (United Nations Peacekeeping Force in Cyprus) con un mandato semestrale da allora sempre rinnovato. Da questo momento i greco-ciprioti riescono ad ottenere alcune modifiche costituzionali in senso maggioritario, così negli anni successivi al 1964 i turco-ciprioti diventano a tutti gli effetti cittadini di serie B, con la speranza da parte del Presidente Makarios che un'emigrazione riduca i problemi della minoranza. Il punto di non ritorno è però posto nel 1973: il 15 luglio un colpo di Stato organizzato dalla Grecia (all’epoca in cui comanda la Giunta dei Colonnelli) rovescia il Presidente Makarios. Il 20 luglio la Turchia invade l’isola con l’intento di proteggere la comunità turco-cipriota.
Oggi mentre la Repubblica di Cipro ha ritrovato la democrazia ed è addirittura entrata nell’UE nel 2004, la parte nord dell’isola è ancora occupata dalla Turchia. La Repubblica Turca di Cipro Nord è infatti un esempio di stato fantoccio, e di questo avviso è in particolare la Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza del 18.12.1996, Lozidou vs. Turchia) che ritiene responsabile la Turchia per le violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo perpetrate in quel territorio. Lo Stato turco-cipriota inoltre non è riconosciuto né dall'ONU, né dalla intera comunità internazionale, con l’eccezione della stessa Turchia. Sono pochi però a sapere che siccome è tutta Cipro ad aver aderito all’UE, anche i turco-ciprioti hanno la cittadinanza europea, anche se non possono usufruire dei loro diritti poiché nei territori occupati dalla Turchia (35,4% dell’isola) è prevista la sospensione dei trattati comunitari.

(nell’immagine la spiaggia di Varosha, la cd. città fantasma. Era questa il quartiere greco-cipriota di Famagosta, oggi città della Repubblica Turca di Cipro Nord, ed era abitata da oltre 15mila persone tutte fuggite per salvarsi dall’invasione dei turchi)

sabato 12 dicembre 2009

Meno male che c'è Minzolini...


Meno male che c’è Minzolini a dirci cos’è giusto e cos’è sbagliato. A consigliarci a chi credere e a chi no. Perché, naturale, se Gaspare Spatuzza è un pluriomicida e uno stragista automaticamente sarà anche un bugiardo. E tanti auguri ai principi di logica e causa-effetto dei discorsi con un senso compiuto. Come ha detto Giancarlo Caselli, se è vero che bisogna cercare i riscontri alle parole del pentito Spatuzza, non si può dare per scontato in partenza che menta: bisogna essere laici, non prevenuti né in un senso né nell’altro. Per il fondatore del minzolinismo (secondo il linguista Cortelazzo una “forma di giornalismo che si basa sulla raccolta di dichiarazioni anche informali di uomini politici, senza alcuna verifica delle informazioni raccolte”) nulla conta che Spatuzza sia già stato ritenuto attendibile dai magistrati di Caltanissetta, che hanno preso la decisione di rivedere il processo per la strage di Via D’Amelio, della quale si è autoaccusato.
Meno male che c’è Minzolini, con il suo stile recitativo, tipico della poesia imparata a memoria di un bambino di quinta elementare, a difendere il suo datore di lavoro e l’amico degli amici Dell’Utri, come se non bastassero le loro schiere di avvocati. La deposizione di Spatuzza diventa “senza riscontri” e ciò è perlomeno paradossale dato che un riscontro doveva essere proprio la versione di Filippo Graviano. Questi ha smentito non “in un’altra aula di tribunale”, ma nella stessa: quella per il processo d’appello a Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, condannato in primo grado a nove anni di reclusione con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
Meno male che c’è Minzolini, direttore di un servizio pubblico (e che più o meno neutrale lo è stato fino a non molto tempo fa), a spiegarci che “nel nostro sistema giudiziario c’è qualcosa che non va” e a dirci di credere al boss mafioso ma non al “supposto” pentito. Lo stesso Dell’Utri da Graviano tanta benevolenza sembra che non se l’aspettasse: “sono meravigliato dalla dignità, dalla compostezza e dal pentimento esibiti da questo signore; a differenza di Spatuzza, mi sembra abbia intrapreso un sincero percorso di ravvedimento”. Nulla conta che il collaboratore di giustizia sia Spatuzza e non Filippo Graviano.

(vignetta di theHand)

martedì 8 dicembre 2009

Ma cos'è la Destra?


Non so se è più patetica la sinistra, che applaude ad ogni affermazione Finiana in grado di destabilizzare Berlusconi, oppure la Destra-pop(ulista).
Per quanto riguarda la sinistra credo che sia sempre più allo sbando, talmente priva di una leadership e di una linea politica unitaria da seguire, da doversi aggrappare alle parole del tanto contestato presidente della Camera.
La destra-pop invece credo che meriti qualche parola in più, in quanto è ad essa (anche) che il popolo ha dato in mano le chiavi per far funzionare il Paese.
Si tratta di una destra sempre più spaesata, retta in piedi solamente dalla grande forza del presidente del Consiglio e da un Partito Democratico connivente.
A tratti il PDL mi ricorda sempre di più "L'Unione" guidata da Romano Prodi; quest'ultima, in deficit di un forte capo del governo, vantava una composizione piuttosto variegata e mal assortita: comunisti, ex comunisti, cattolici, radicali, riformisti, conservatori...
Idem capita ora nel PDL dove troviamo: fascisti, ex fascisti, liberali, radicali, socialisti, ex socialisti, ex radicali, cattolici, laici, massoni, ... con una gran differenza rispetto all'Unione: la presenza di un leader forte (oggi forse un pò meno) e capace di dettare (oggi forse un pò meno) la linea di governo.
Questa forte variegazione cultural-politica si è palesata fortemente in seguito alle esternazioni del Presidente della Camera; emblematiche le repliche dei reggenti del partito di destra-pop: "Fini fuori dalla linea del paritito", "Fini lascia il PDL", "Fini filo-islamico", "Fini Compagno", "Il complotto contro Berlusconi"... si potrebbe andar avanti per ore.
Si può sintetizzare evidenziando un'invito al Presidente della Camera ad uscire dal PDL.
Questo è il punto di vista che vorrei suggerire: il PDL, fondato pochi mesi fa da Berlusconi e Fini su tutti, ha aderito a livello europero al cd. PPE: il parito popolare europeo; questo partito europero è rappresentato in particolar modo da Angela Merkel, la quale governa con un partito liberale guidato da Guido Westerlelle, un gay. La cancelliera tedesca ha iniziato il suo mandato politico affermando, tra le tante cose, che difenderà i diritti civili con i denti. La linea politica del PPE è in linea con le affermazioni del Presidente della Camera e non con quelle dei vari Cicchitto, Bondi, Bossi...(guardacaso tutti ex socialisti o comunisti o massoni, nessuno di Destra).
Dopo questa precisazione ci sarebbe da concludere che se qualcuo davvero deve lasciare il PDL questi di certo non sono i cd. Finiani ma i componenti della destra-pop.
La verità credo sia evidente: si stanno scontrando due visioni diverse della politica all'interno del PDL: la prima, quella della destra-pop, è una visione politica hic et nunc, miope, che si preoccupa solamente di parlare alla pancia del paese, al fine di garantirsi i voti necessari a vedere intatto il proprio status quo; una destra molto particolare formata da socialisti, radicali, massoni, ...
L'altra linea politica invece è quella dei cd. Finiani: i quali una matrice politica ben definita ce l'hanno, un certo valore dello Stato lo sentono, si riconoscono nel Risorgimento italiano e nella Costituzione, sentono il coraggio e la voglia di fare un passo deciso tendente ad una destra che non sia solo quella che sa parlare alla pancia del popolo, che sa solo appaltare i problemi alla populista Lega, che si fa additare come xenofoba, ottusa e di certo non al passo con i tempi.
Hanno stupito le posizioni di Fini sull'insegnamento dell'Islam nelle scuole: è forse meglio lasciare che ad insegnare la religione ai giovani islamici in Italia siano Imam integralisti presenti sul territorio italiano?
Altra esternazione molto discussa è stata quella, già proposta anni fa da Fini, di procedere ad una maggior integrazione degli stranieri secondo la via della legalità. E' forse più sensata la via delle cd. sanatorie tanto care a Berlusconi? Siam sicuri che la linea della Lega sull'immigrazione non generi più emarginazione, criminalità e clandestinità di quella che vuole, negli intenti, annientare?
Altrettanto stupore e collera hanno provocato altre uscite del Presidente della Camera, quelle riguardanti la giustizia e la magistratura; da sempre la destra (non pop) si è distinta per un certo rispetto delle regole e dell'ordine e Fini proviene proprio da questo ceppo politico e non da quello della P2 nè del PSI!
Credo, e con questo chioso, che non si stia verificando uno spostamento di Fini verso sinistra ma un allontanamento della destra-pop (quella della Lega, di Berlusconi, Cicchitto, Bondi ...) da quella che è la vera destra liberale rappresentata in Europa dal PPE.

mercoledì 2 dicembre 2009

Lukashenko, l'ultimo dittatore d'Europa


“Non permetterò che il mio governo segua il mondo civilizzato”: con queste parole Alexander Grigoryevich Lukashenko, Presidente della Bielorussia dal 20 luglio del 1994, cerca di illustrare la sua linea di governo. Si fa chiamare Bat’ka, “padre”.
“La storia della Germania è una copia della storia della Bielorussia. La Germania fu riportata in alto dalle rovine grazie ad una ferma autorità e non tutte le cose connesse alla figura di Hitler sono state cattive. L’ordine tedesco si evolse durante i secoli e raggiunse il suo picco sotto Hitler”: così si esprime Lukashenko in una controversa intervista del 1995.
Nel marzo del 2006 migliaia e migliaia di bielorussi marciano in fila per le strade e protestano per i brogli elettorali. L. vi manda contro la polizia in assetto antisommossa. Si interviene duramente per stroncare la protesta che l'opposizione inscena nella centrale piazza Oktiabrskaia di Minsk dal giorno delle elezioni vinte - fraudolentemente, secondo i manifestanti e secondo l’Osce e molti Paesi occidentali - da Lukashenko.
Aleksandr Kazulin, lo sfidante di Lukashenko alle presidenziali del 2006, è stato condannato a cinque anni di reclusione ed è rimasto in carcere per due. L’attivista Yana Palyakova in quei due anni si occupa del dossier Kazulin e promuove manifestazioni per il suo rilascio. Diventa un bersaglio delle autorità; viene arresata e picchiata, perseguitata con minacce anonime, aggressioni fisiche, telefonate della polizia in piena notte. Distrutta psicologicamente si suicida il 7 marzo 2009.
Uno dei maggiori problemi in Bielorussia rimane la libertà di stampa. Secondo il Freedom House Index 2008, la Bielorussia è al 188° posto e solo sette paesi sono posizionati peggio: Uzbekistan, Cuba, Eritrea, Libia, Turkmenistan, Birmania e Corea del Nord. Tuttora nel 2009 i giornalisti che riportano notizie dal Paese devono nascondere i loro veri nomi per proteggere sé stessi dalle persecuzioni del Kgb bielorusso e delle forze speciali.
Il 14 agosto 2009 un corrispondente e un cameraman del canale russo NTV sono stati arrestati dopo aver intervistato i familiari di alcune persone scomparse tra il maggio del 1999 e il luglio del 2000. La squadra di NTV è stata espulsa il giorno stesso dal Paese. Le loro sim-card e le cassette con il materiale video girato sono stati confiscati dagli agenti del Kgb.
La piaga delle persone scomparse continua ad affliggere la Bielorussia. Per far comprendere il potere assoluto di L. riportiamo un fatto avvenuto qualche settimana fa e raccolto da una giornalista di Radio Popolare. Una sua collega canadese era riuscita ad avere un’intervista esclusiva con il Presidente, evento già di per sé eccezionale. Questa gli aveva raccontato la storia di un ragazzo che era sparito misteriosamente. La famiglia era disperata; per errore era stato scambiato per una spia della resistenza. Intenerito da chissà quali parole L. ha fatto liberare il ragazzo la mattina seguente, e questi non è più stato toccato.
L. non riceveva una visita “occidentale” da più di dodici anni. A porre fine a questo periodo di isolamento ci ha pensato il Presidente del Consiglio italiano, che nell’occasione ha pronunciato le seguenti parole: “Grazie a lei ma anche alla sua gente, che so che la ama, e questo è dimostrato dai risultati delle elezioni, che sono sotto gli occhi di tutti, che noi apprezziamo e conosciamo. Tanti auguri a lei e al suo governo”. Che la realpolitik imponga relazioni anche con personaggi e paesi scomodi per approfittare dei vantaggi politici ed economici che da questi si possono ricavare, è risaputo e generalmente ammesso. Ciò non significa però che l’Italia, uscita ella stessa da una dittatura nel modo peggiore, dopo aver guadagnato la democrazia col sangue, possa prostrarsi sempre al despota di turno.

venerdì 27 novembre 2009

Breve riflessione sulla Ru486


Rimandato ancora il via libera alla pillola abortiva Ru486, in grado di essere utilizzata come alternativa all'aborto chirurgico. Il farmaco è da tempo presente in quasi tutti i paesi occidentali (dagli USA alla Francia, dalla Germania all'Inghilterra alla Tunisia). La commissione sanità del Senato dopo aver ricevuto già il consenso dell'Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha richiesto un parere del Governo, col chiaro intento di ritardare il via libera alla Ru486. Non si capisce che parere tecnico possa dare il Governo sull'efficacia di un farmaco e su una materia medica.
La deputata PdL Barbara Saltamartini, al Corriere della Sera di oggi, alla domanda "lei cosa spera che dica il governo di questa pillola?" risponde: "Vorrei che la proibisse. Ho troppa paura della cultura che si potrebbe creare avendo a disposizione una pillola che provoca l'aborto così facilmente". Ecco che la colpa della Ru486 viene svelata: è troppo facile da usare. Quello che dovrebbe essere il suo merito, ossia lo scongiurare alla donna l'iter travagliato e doloroso di una operazione chirurgica, diviene invece il motivo per osteggiarla.

(nell'immagine una vignetta inglese: evidentemente tutto il mondo è paese, ma noi restiamo paese più a lungo)

lunedì 23 novembre 2009

Il buio sugli anni di piombo


È difficile trovare in giro film che parlino degli anni di piombo italiani, quel periodo che inizia con l’autunno caldo del 1969 ma non si sa bene dove finisca. Probabilmente il 1988, quando le Brigate Rosse compiono il loro ultimo assassinio uccidendo il senatore DC Roberto Raffili, non è l’anno giusto. Come lasciare fuori infatti la stagione stragista di Cosa Nostra? E le nuove BR, che tra il 1999 e il 2003 uccidono prima Massimo D’Antona e poi Marco Biagi? Evidentemente non si può. Allora scopriamo che i cd. anni piombo non è che siano finiti tanto tempo fa: l’ultimo rigurgito di tensione armata viene cancellato solo il 2 marzo 2003, con lo scontro a fuoco sul treno Roma-Firenze che porta alle morti del brigatista Mario Galesi e del sovrintendente di polizia Emanuele Petri ed all’arresto della compagna di Galesi, Nadia Desdemona Lioce.
Forse la difficoltà di avvicinarsi con una prospettiva storica a questo periodo deriva proprio dal fatto che abbia avuto termine da poco. Tuttavia per chi come me è nato alla fine degli anni ’80 gli anni di piombo sono il buio. A scuola a malapena i professori riescono ad arrivare alla bomba atomica e la resa del Giappone. A volte magari spiegano un po’ a grandi linee il sessantotto perché loro l’hanno fatto e hanno lottato per qualcosa. Ma poi si rimane con un buco che viene lasciato lì.
Per questo ogni iniziativa giornalistica o artistica o storica che riguarda un periodo così poco conosciuto dai giovani è importante. Come si fa a comprendere l’Italia di oggi e ignorare quegli anni tragici che hanno vissuto solo i nostri padri? Non si può. Anche per questo il film “La Prima Linea” a suo modo è importante. Dispiace vedere tante polemiche intorno a quello che in fondo, semplicemente, è un bel film che racconta vicende drammatiche non così lontane da noi.
La pellicola racconta una storia del gruppo terroristico omonimo Prima Linea, attraverso gli occhi di uno dei suoi fondatori, il giovane Sergio Segio. Il viaggio compiuto con un gruppo di ex combattenti nel gennaio dell’82 verso il Polesine con l’obiettivo di assaltare il carcere di Rovigo per liberare la sua compagna Susanna Ronconi, è la scusa che coglie il regista per illustrarci la parabola discendente della vita terroristica di Segio dai primi attentati al pentimento forse avvenuto già prima dell’arresto.
Ciò che traspare dal film è proprio la solitudine dei terroristi, che vivono isolati in piccole stanze, sempre in fuga, e che vedono mano a mano allontanarsi il supporto della classe operaia nei confronti delle loro azioni, spinte alla fine da un solitario delirio di onnipotenza. Emblematico di come Prima Linea stesse perdendo il proprio controllo abbandonandosi ad un’escalation di violenza gratuita è l’assassinio di Emilio Alessandrini, il giudice che scoprì la pista nera della strage di Piazza Fontana e che ebbe il torto di avvicinarsi troppo ai componenti del gruppo con le sue indagini, “un giudice temuto dai servizi deviati per essere troppo rosso, ucciso dal terrorismo rosso perché efficiente e democratico” (come dice P. Leporace, nel libro Toghe rosso sangue).
Gli attacchi della carta stampata non sono mancati nei confronti della pellicola. La critica più diffusa al film è che non racconta il contesto storico del sessantotto e degli anni di piombo; tuttavia non credo fosse questo il compito affidato al film dai suoi autori. I film raccontano storie, non la storia. D’altra parte per riuscire ad avere una visione generale e completa di quel periodo non basta neanche guardare qualche documentario, o leggere un libro. Inoltre lo stesso sottotitolo del libro “Miccia Corta” di Sergio Segio a cui si è ispirato il film parla di “Una storia di Prima Linea”.
È molto triste sentire il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ex comunista Sandro Bondi, che pur ha riconosciuto da parte del film la “netta condanna delle responsabilità di chi si è macchiato di orrendi delitti in nome di un’ideologia criminale”, dire anche: “ritengo personalmente che la sopravvivenza nella storia del nostro Paese di rigurgiti di violenza politica, nonché il rispetto che tutti, a partire dalle istituzioni, dobbiamo alla memoria di tutte le vittime del terrorismo, per non parlare della doverosa riservatezza che i protagonisti di quella stagione dolorosa dovrebbero mantenere, imporrebbero di non usare fondi pubblici per finanziare questo genere di film”. Non si capisce allora cosa debba fare un film sul terrorismo in Italia per avere l’accesso ai fondi pubblici. Dopo le polemiche sulla questione comunque il produttore Lucky Red vi ha rinunciato, pur avendone pieno diritto. Probabilmente la politica non è ancora pronta per un dibattito aperto ed una analisi scevra da preconcetti sul tema. Resta comunque il fatto che gli anni di piombo sono una parte della nostra storia, seppur lasciata in un angolo.
(nell'immagine, il giudice Emilio Alessandrini ucciso da Prima Linea)

giovedì 19 novembre 2009

Liceo Gandhi: una storia italiana


Il 14 novembre all’alba la polizia irrompeva in un liceo di Milano per sgomberarlo. La sera prima gli studenti avevano occupato la scuola. Strana occupazione tuttavia: non per protestare contro l’ultima riforma di questo o quel ministro dell’istruzione, ma per salvare la loro scuola.
Tutto iniziò l’estate scorsa, quando l’11 agosto il Comune di Milano comunicò agli studenti con una lettera l’intenzione di chiudere la scuola, con bollettini di iscrizione già pagati e a poco più di un mese dall’inizio. Una decisione grave perché il Gandhi di piazza XXV aprile non era una scuola normale: era l’ultimo liceo civico paritario italiano. A settembre il Gandhi contava circa 80 studenti suddivisi in quattro indirizzi: liceo classico, linguistico, sociopsicopedagogico, e scientifico, per un totale di 20 classi di cui, all'avvio dell'anno scolastico 2009/2010, ne rimanevano aperte soltanto due, le quali tuttavia non sono state attivate grazie ad un appiglio burocratico. La conseguenza è che studenti che hanno il diritto di terminare i propri studi presso il liceo a cui sono iscritti si ritrovano da settimane, giorno e notte, per strada e in tenda a presidiare la loro scuola. Tuttavia, anche dalle voci dei suoi studenti, si intuisce come lo smantellamento della scuola non sia iniziato solo quest’estate. Se molti suoi alunni sono venuti a conoscenza dell’esistenza del Gandhi tramite il passaparola, significa che c’è stata una volontà pregressa da parte delle Istituzioni di non pubblicizzare questa realtà. Ciò lascia attoniti perché un liceo serale dovrebbe essere per una città che tiene a sé stessa un vanto e non un peso.
Il Gandhi era davvero un'istituzione importante. Aperto da oltre cinquant’anni, consentiva a tanti lavoratori di non rinunciare alla possibilità di raggiungere un diploma di liceo con un costo veramente contenuto di 258 euro annui: circa un decimo di quello che possono chiedere licei privati paritari. Per molte persone era questo quindi l’unico luogo accessibile che consentiva di studiare pur lavorando. La protesta degli studenti ha ricevuto la solidarietà di molti esponenti del mondo della cultura cittadina, tra cui Dario Fo e il ballerino Roberto Bolle, ex studente della scuola.
Formalmente le ragioni che hanno indotto il Sindaco Letizia Moratti e l’assessore Mariolina Moioli a chiudere la scuola sono la mancanza di fondi e la carenza di studenti. La prima è discutibile, considerato anche i quattro milioni di euro che il Comune ha elargito quest’anno come contributi per l’acquisto di materiale scolastico a tutti gli studenti delle scuole primarie e secondarie di Milano: “mi risulta che non ci siano altre municipalità a prevedere questi contributi; un modo per essere vicini alle famiglie in un periodo non facile, ma anche per attuare la nostra Costituzione, che garantisce ai capaci e ai meritevoli il raggiungimento dei più alti gradi degli studi” le parole della Sindaca. Inoltre i professori del Gandhi sono di ruolo: ciò significa che comunque non andavano a pesare sul bilancio del Comune e una volta soppresse le classi si sono ritrovati a far nulla. La seconda ragione è stata smentita dal TAR che ha concesso la sospensiva nei confronti dell’atto di chiusura del Comune, accogliendo il ricorso degli studenti. Nonostante questo il Comune non ha riaperto la scuola. Nemmeno le due classi che dovevano rimanere aperte hanno potuto iniziare le lezioni.
Il Gandhi era stato già occupato e sgomberato due volte. Comunque la si veda, la vicenda è indice della mentalità malata che pervade la politica, a livello sia locale che statale, che vede nell’istruzione e nella ricerca medico-scientifica solo luoghi di tagli, accomunati da ideali un po’ retrò ben sacrificabili alla ragion di stato economica. Credo che i pochi studenti del Gandhi non giustificassero la sua chiusura, bensì una sua implementazione. Una società che guarda al futuro non può prescindere da educazione e cultura. Il rischio è cadere in un clima di barbarie. Lasciar morire una scuola è un gravissimo delitto, perché la scuola è la società.

sabato 14 novembre 2009

Era meglio il lodo Alfano


Mai come in questi giorni appare evidente quale vittoria di Pirro sia stata la dichiarazione di incostituzionalità del lodo Alfano. In primo luogo perché durante la sua vigenza ha consentito comunque a B di sfuggire alle condanne del processo Mills, dove anche la sentenza della Corte d’Appello di Milano ha riconosciuto la sua responsabilità per la corruzione giudiziaria dell’avvocato inglese. In secondo luogo per la presentazione del disegno di legge sul processo breve. Se con questo non siamo alla morte dell’ideale di giustizia, poco vi manca.
Fa ridere l’incipit che Gasparri e i suoi amici hanno dato a questo ddl, “Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell'articolo 111 della Costituzione e dell'articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo”, quando il vero scopo è quello di salvare B dai suoi processi al costo di passare come Attila sulle esigenze di giustizia di quei cittadini, più sfortunati degli altri, che si ritrovano coinvolti in processi con controparti ricche e potenti.
La durata massima di sei anni e i due anni imposti per ogni giudizio come tempo “ragionevole” vanno contro l’idea stessa di avere un processo breve. Se già oggi gli avvocati spingono ad allungare i processi con richieste defatigatorie e cavilli giuridici in vista del miraggio della prescrizione, possiamo ben capire cosa avverrà con l’entrata in vigore di questa legge. Anche il più incapace degli avvocati avrà vita facile a raggiungere l’estinzione del processo. E ciò senza considerare come nella realtà un processo serio e complicato come può esserlo uno per fallimento, o corruzione, o frode fiscale, o abuso d’ufficio, è quello che richiede più tempo per essere concluso.
Con questa legge i processi non saranno più brevi, semplicemente non si faranno.
In pratica l’ambito di applicazione della prescrizione breve è limitata ai reati dei politici, degli imprenditori, dei banchieri, degli industriali. Sono esclusi gli incensurati, e già questo è un profilo di incostituzionalità dato che prima della condanna un incensurato e un pregiudicato sono entrambi presunti innocenti, e non si capisce perché quest’ultimo debba essere discriminato. Cioè lo si capisce benissimo: perché certa gente incensurata lo resti a vita.
Era meglio il lodo Alfano perché almeno toccava solo lui. Il ddl sulla prescrizione compromette l’intero sistema giudiziario. Lo compromette riguardo ai reati futuri, che diverranno quasi impossibili da perseguire, ma anche nei processi in corso. Entrando in vigore cancellerà, in parte o totalmente, ad esempio i processi Parmalat, clinica Santa Rita, Cirio, Thyssen, rifiuti in Campania. Quelli più odiosi. Al contrario gli immigrati, e i poveracci in generale che delinquono per necessità, quelli che fanno dentro e fuori dalle carceri, a loro sarà concesso il processo “lungo”.
Era meglio il lodo Alfano ed è molto triste dirlo. Perché lasciarlo in vigore avrebbe voluto dire calpestare la Costituzione, legalizzare l’illegalità voltando lo sguardo a forza da un’altra parte, sottomettersi ad un padrone più uguale degli altri.
Basta poco per comprendere come questo ddl sia giuridicamente imbarazzante, voluto e sostenuto da una classe politica che ormai non ha più dignità, che disprezza il cittadino ed il suo bisogno di giustizia, che rimane lì chiusa nei suoi palazzi a pensare solo come rimanerci più a lungo.

martedì 10 novembre 2009

Lo spettro della prescrizione breve


Il progetto di una nuova legge da presentare in Parlamento per consentire a B. di sfuggire al processo Mills (ma anche a quelli Mediaset e Mediatrade) è realtà. Le mediazioni procedono. Il presidente della Camera Fini lascia trapelare che per preservare la governabilità della maggioranza è possibile arrivare a un compromesso. L’idea di B. e del suo avvocato, nonché parlamentare nonché componente della Commissione Giustizia, Niccolò Ghedini è quella di diminuire ulteriormente i termini di prescrizione per alcuni determinati reati. La c.d. prescrizione breve introdurrebbe la “ragionevole durata” per un processo: se questo non si concludesse per i tre gradi di giudizio in sei anni, scatterebbe la prescrizione. Fini e il suo rispettivo avvocato Giulia Bongiorno, nonché deputata nonché presidente della Commissione Giustizia, stanno cercando di limare questa norma: propongono di restringerle il campo applicandola solo a chi sia “incensurato”, e di far scattare la prescrizione se entro un limite di tempo dall’inizio del processo non si sia arrivati alla sentenza di primo grado.
In ogni caso i problemi cui i berluscones si trovano di fronte nel strutturare una tale legge sono seri. Appare infatti scontato che una tale forma di scudo vada a toccare altre migliaia di processi. Siamo di nuovo di fronte ad un progetto di legge ad personam che mette a rischio la stabilità e la, seppur già bassa, linea di galleggiamento del sistema giudiziario. A prescindere dalle motivazioni politiche che spingono B. a cercare protezione rispetto al rischio di una sua caduta dovuta ad una possibile condanna giudiziaria, il processo penale non ha i mezzi per sostenere una tale norma. Questo a causa della sua struttura sic et simpliciter, e a causa di carenze strutturali e di risorse (sia economiche che umane).
Il legislatore del 1988 emanando il nuovo codice di procedura penale è caduto in un eccesso di garantismo che ha comportato l’allungamento dei processi rispetto al previgente sistema inquisitorio e la loro eccessiva durata. In particolare il principio che obbliga la formazione della prova in contraddittorio è la causa di molti mali del processo penale: escludendo la validità delle prove raccolte durante le indagini, obbliga il PM a raccoglierle una seconda volta, spesso andando incontro a “misteriosi” cambiamenti di versione dei testi chiave. Tutto ciò dovrebbe essere sempre ricordato a quei politici che attaccano la magistratura tacciandola di inadempienza di fronte ai lunghi tempi processuali. Il magistrato lavora con i mezzi che gli vengono forniti dalla legge. E le leggi le fanno i politici.
A ciò c’è da aggiungere come la disciplina della prescrizione sia già stata modificata pesantemente nel 2005 con la legge c.d. ex-Cirielli, la quale ha abbassato i termini prescrizionali rispetto al passato anche per delitti di rilevante gravità, toccando soprattutto gli illeciti tipici della c.d. criminalità dei colletti bianchi (peculato, corruzione, concussione, bancarotta etc.) e facendo sorgere un sospetto: e cioè, prendendo a prestito le parole dei proff. Fiandaca e Musco, “che il perseguito abbassamento dei tempi della prescrizione sia funzionale all’obiettivo di consentire un più rapido oblìo di quelle figure di reato di cui solitamente si rendono responsabili – appunto – autori primari appartenenti ai ceti sociali privilegiati”.

mercoledì 4 novembre 2009

L'incredibile influenza A. Disinformazione mediatica e business.


Personalmente considero veramente una pazzia la conta che tutti i mezzi di comunicazione stanno facendo dei morti a causa della c.d. influenza A. Dal Corriere al Tg1 alla Stampa al mitico Studioaperto. Tutti fanno a gara a trovare l’ultimo morto di influenza. Qui stando dando tutti di matto. Non vedo altre spiegazioni. O meglio, le vedo ma non le anticipo.
Dei 18 morti per influenza A 17 soffrivano di patologie precedenti, sempre più gravi della stessa influenza, intervenuta solo in un secondo momento ad aggravarle. Ma allora se uno soffre di polmonite o diabete o è malato di tumore come si fa a sostenere che sia morto per l’influenza suina e non per quelle patologie che da giorni o mesi o anni indebolivano il suo fisico? Se dovessimo togliere quei 17 morti ci ritroveremmo con 1 solo morto direttamente a causa del virus A/H1N1. A fronte di 250.000 ammalati in Italia. Ma anche questa è una stima solo approssimativa, e molto difficile da elaborare: si sa che le persone più ipocondriache tendono a considerare un raffreddore come una potente influenza intasando i prontosoccorsi, ma d’altra parte moltissima gente si cura a casa da sola senza nessun problema, spesso non smettendo nemmeno di lavorare.
Una recente analisi, condotta per stimare la mortalità in Italia attribuibile all’influenza, segnala come ogni anno si registrerebbero circa 8.000 decessi.
L’allarme pandemico causato dal virus A/H1N1 e la forte concentrazione di comunicazioni tese ad allertare la popolazione circa la capacità diffusiva di questo nuovo virus - come dichiarato dal dott. Emilio Mortella, Presidente di Ageing Society Osservatorio Terza Età - rischiano di porre in secondo piano la normale ma più pericolosa sindrome influenzale, ritardando l’annuale campagna di vaccinazione per quest’ultima rivolta soprattutto agli anziani. Ci potremmo trovare dunque davanti ad un paradosso: a causa del procurato allarme per una influenza in realtà più lieve della stagionale, ci ritroveremo con più morti di influenza stagionale rispetto agli altri anni.
A questo punto la normale influenza sarebbe davvero da considerare come una pericolosa epidemia (ma non comunque una pandemia, dato che i soggetti esposti a pericolo appartengono a categorie ben individuate).
Lo stesso povero viceministro alla Salute Ferruccio Fazio in questi giorni è stato sbeffeggiato dai media per aver detto delle ovvietà e aver cercato di contenere l’allarme infondato: tutti a urlargli “Ferrù, ma cosa dici, non vedi quanta gente muore!”. In verità la mortalità dell’influenza A rimane comunque innegabilmente inferiore a quella dell’influenza normale. Gli stessi giornalisti quando vanno più a fondo sull’argomento, sono costretti a enumerare questi dati. Ma allora perché tutti i maggiori quotidiani nazionali negli ultimi giorni continuano a dedicare cubitali e allarmistici titoli sulle loro prime pagine? A pensar male molto spesso ci si azzecca. E in questa materia in passato pensando male spesso ci hanno azzeccato. Io ho ancora in mente l’allarme planetario che lanciò l’OMS in occasione dell’influenza aviaria. Terribile pandemia che in Italia causò la morte di due o tre cigni. Cosa alquanto tragica. Nonostante ciò medicinali e fantomatici vaccini (dato che non ne esistevano di veri) vennero venduti a vagonate, e tutto a causa della campagna disinformativa portata avanti dall’OMS e dai media in seguito alle pressioni delle lobbies farmaceutiche, che giusto uscivano da un periodo di basse vendite e profitti.
Già quest’estate, quando l’allarme veniva dall’Inghilterra, il governo italiano aveva prenotato centinaia di migliaia di vaccini, con gran gaudio delle industrie farmaceutiche produttrici. Il 7 agosto il Presidente del Consiglio autorizzava il Ministero del lavoro e della salute ad acquistare i vaccini contro l’influenza “A” per proteggere dalla prevista epidemia almeno il 40% (!) della popolazione. Molti avevano criticato l'acquisto perchè ritenuto spropositato nella quantità. Fortunatamente ora verranno utilizzati, anche se non penso proprio tutti. Con ciò non voglio dire che le persone più deboli e a rischio non facciano bene a vaccinarsi anche contro la suina, anzi. Voglio solo far notare però che questi procurati allarmi sono ciclici, comportano un uso criminale dei mezzi di informazione creando un panico ingiustificato, distraggono l’opinione pubblica da questioni ben più importanti e rilevanti, e regalano ad una certa industria una montagna di denaro.

lunedì 2 novembre 2009

Alda Merini: scomparsa di un'intellettuale

L’affetto con cui la rete ha risposto alla notizia della morte della poetessa Alda Merini è allo stesso tempo sia incredibile che rassicurante. Incredibile perché dilagante, vivo e sincero, manifestato da migliaia di internauti su blogs e social networks. Rassicurante perché indice di una passione culturale che sembrava quasi estinta di questi tempi nel nostro Paese.
Alda Merini era una persona strana: piccola, anziana, poco telegenica. Ma dotata di un’immensa cultura della vita che le consentiva di non dire mai cose banali. L’immenso talento poetico segnato dalla sofferenza e dalla voglia di rinascita le ha dato montagne di premi, arrivati soprattutto nel periodo successivo alla permanenza in manicomio. Era stata proposta per il Nobel. Nel 2002 era stata anche insignita del titolo di Commendatore al merito della Repubblica Italiana dal Presidente Ciampi. Tuttavia nei suoi confronti l’Italia è stata indegna, come per tanti altri intellettuali.
Soprattutto ora che il Paese sta attraversando una innegabile crisi morale e culturale, la perdita della coscienza della Merini si fa più pesante. Mi accorgo sempre più spesso come gli intellettuali veri stiano sempre più scomparendo. I media e la madre televisione in particolare ne sono la riprova. Gli intellettuali sono stati sostituiti dagli opinionisti, dotati peraltro di ben scarsi titoli. Una volta avevamo Pasolini che faceva televisione. Oggi?
A parte qualche comparsata in seconda serata la Merini è stata ignorata dalla TV. Peccato, su questo mezzo si sente la mancanza di persone che facciano pensare.
Alda Merini è morta ieri pomeriggio a Milano. Aveva 78 anni. Aveva scelto di vivere in una piccola casa sui navigli in condizioni disagiate. Per illustrare l'irrequietezza e la generosità del suo animo allego un’intervista significativa, rilasciata un anno fa.
«Sa perché sono entrata in manicomio? Perché la persona che amavo più di me stessa, mio marito, mi ha tradito, facendomi passare per demente. Hanno creduto a lui e non a me perché era più forte, era quello che portava i soldi a casa. Si è disfatto di me. Però a volte penso che se non avessi provato sulla mia pelle l’esperienza tremenda del tradimento, e quindi quella del “lager”, dopo non avrei scritto gran parte delle mie poesie più belle. Dopo tutto, volendo usare una metafora religiosa, se non ci fosse stato Giuda non avremmo avuto il Cristianesimo. Con gli anni ho capito che quel “mezzo” terribile, che ha sfasciato una famiglia, e che poteva distruggere la mia anima per sempre, è stato una linfa vitale per la mia poesia. Non avrei mai potuto scrivere la mia raccolta più bella, “La terra santa”. Ho odiato mio marito per il male che mi ha fatto. Uscita dal manicomio non ho raccontato nulla di ciò che mi era capitato né a lui né ad altri. Poi, dopo cinque anni, mi sono messa a scrivere “L’altra verità. Diario di una diversa”, che nessuno voleva pubblicare, visto che per la prima volta raccontavo gli orrori che subivamo noi matti. Avevo messo il dito nella piaga. Lui, il mio primo marito, era in fin di vita. Io, nonostante tutto, l’ho curato fino all’ultimo. Quando ha letto quelle pagine, piangendo mi ha chiesto di perdonarlo, non poteva credere che io fossi stata vittima, insieme a tanti altri, di tali soprusi».

(fonte dell'intervista: Resistenze Culturali)

mercoledì 28 ottobre 2009

I soldi che non danno la vittoria


Chi quest'estate si scandalizzò lamentandosi al bar con gli amici al veder cadere nel cesto della spesa del Real Madrid a suon di milioni di euro le stelle Kakà, Cristiano Ronaldo, Albiol, Benzema e Xabi Alonso stamattina si sarà svegliato un po' sollevato. Se quello spocchioso uso del danaro lo aveva frustrato così tanto perchè magari la sua squadra del cuore non poteva permettersi neanche una delle stelle che si stavano prendendo le merengues, forse oggi avrà dato un pensiero all'inferno della divina commedia e alla sua legge del contrappasso. Perchè ieri sera in una partita di Copa del Rey il Real Madrid ha perso 4 a 0 con l'Alcorcón, una squadra di Segunda B (la nostra serie C, pardon Prima Divisione come la chiamano i burocrati del calcio oggi).
Quanto godimento ci può essere a vedere Florentino Perez che assiste alla disfatta della propria squadra da 415 milioni di euro umiliata da una squadra con un bilancio più di quattrocento volte più basso? Molto. Soprattutto per quei tifosi di Alcorcón accorsi (con ben poche speranze di vittoria) al loro minuscolo stadio per vedere la partita.
Perchè la curiosità è che anche Alcorcón è Madrid, o meglio un municipio dell'area metropolitana di Madrid. Periferia sud-est, quella delle grandi speculazioni immobiliari che accompagnano per chilometri l'autostrada A5 in direzione dell'Extremadura e poi del Portogallo. Speculazioni che ci immaginiamo riguardino, almeno indirettamente, anche el todopoderoso presidente del Real Madrid, Florentino Perez, l'ingegnere e imprenditore che detiene il 12% della più grande compagnia di costruzioni spagnola, la Acs (Actividades de Construccion y Servicios), di cui dal 1997 è presidente.
Perez occupa la 397ma posizione nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio stimato in un miliardo e 800 milioni di dollari. I 252 milioni di euro spesi quest'estate per la campagna acquisti del Madrid devono essergli quindi sembrati bruscolini, ma non sono bastati per dargli la vittoria contro una squadra che come miglior risultato della sua storia vanta un terzo posto in serie C.
Chissà se qualcuno dei gialli tifosi dell'Alcorcón ieri sera presente all'estadio Santo Domingo vive in uno dei palazzoni costruiti da Florentino. E' probabile. Perchè Alcorcón è soprattutto palazzoni ocra e poco altro. Una città dormitorio. La popolazione, nel 1950 di 759 anime, è cresciuta con l'eccezionale inurbamento della corona metropolitana di Madrid dai 46.048 abitanti del 1970, ai 140.657 del 1980, ai 176.245 del 2006. Chi vi abita sono soprattutto pendolari che ogni mattina lasciano i loro pochi metri quadrati e prendono i treni per andare a lavorare nelle zone centrali di Madrid.
Ieri sera l'Alcorcón ha vinto 4 a 0 ma avrebbe potuto fare altri due gol. Florentino in tribuna guardava freddo i suoi miliardari umiliati da sconosciuti del calcio. Quanto è bello quando perde Golia. Quanto è bello lo sport quando mescola sogni, frustrazioni, rivalse.

martedì 27 ottobre 2009

La lingua come base per la libertà di pensiero e l'apertura mentale: l'esempio dell'esperanto


Per affrontare e analizzare una questione in modo completo bisogna sempre partire dalle strutture su cui essa si basa. Dunque, per poter parlare di libertà e liberalismo, a mio avviso è essenziale cominciare dallo strumento attraverso cui si foggia e viene espresso il nostro pensiero, ovvero la lingua, allo stesso tempo specchio e matrice tanto dell’individuo quanto della società. A prima vista, questo potrebbe sembrare un mero excursus teorico e storico, del tutto lontano dalle problematiche politiche e pratiche che ci riguardano da vicino; invece si tratta dell’esatto contrario e cercherò di dimostrarlo.
Ferdinand De Saussures, nella sua rivoluzione apportata agli studi linguistici sul finire dell’Ottocento, comprese benissimo il ruolo preponderante dell’oggetto della sua ricerca. Secondo la concezione del geniale studioso svizzero, quindi, la lingua servirebbe a plasmare e dare una forma intellegibile a una sostanza totalmente confusa e indistinta quale è il pensiero, che altrimenti non risulterebbe affatto comprensibile da parte di ciascun individuo, oltre che comunicabile ad altri. Più o meno nello stesso periodo storico, poi, il filosofo Ernst Cassirer è arrivato ad affermare che “ogni lingua fa emergere da se stessa un suo proprio mondo di significato”, mentre gli studiosi Sapir e Whorf l’hanno definita come “un prisma deformante la realtà”. In poche parole, allora, ogni nazione possiede un particolare modo di concepire il mondo e questo deriva dalla lingua in uso. Il francese, per esempio, ha una sintassi molto chiara e paratattica, ottimale quindi per le scienze, l’analisi e l’apertura di pensiero. Il tedesco, invece, è l’esatto contrario, basandosi su una struttura sintattica complessa e disposta in maniera gerarchica.
Di conseguenza, fra Ottocento e Novecento, un sogno ha pervaso gli studiosi di tutto il mondo: l’invenzione di una lingua universale. Gli esperimenti furono innumerevoli e sarebbe ora troppo lungo ricordarli tutti. Possiamo comunque citare il Solresol di François Sudre (1827), basato sulle 7 note musicali e su altrettanti colori al posto delle lettere, e il Volapùk di Johan Martin Schleyer (1879), fondato sull’assemblaggio di radici tratte da lingue diverse. Entrambi, però, fallirono a causa della scarsa praticità, dovuta nel primo caso all’insufficienza di caratteri e nel secondo a una morfologia troppo complessa e arbitraria.
Ma il colpo di genio non tardò ad arrivare e portò la firma di Ludwik Zamenhof, nel 1887. Questo studioso polacco, che di professione faceva l’oftalmologo, fin da bambino era cresciuto in un paese diviso etnicamente e linguisticamente. Per tale motivo dedicò la sua vita alla creazione di un idioma universale che si basasse su una filosofia fatta di uguaglianza, fratellanza e totale libertà di espressione. Si trattava dell’Esperanto, che per Zamenhof doveva rappresentare il superamento dei conflitti etnici e religiosi. Secondo costui, infatti, la maggior parte degli scontri nasceva dall’incomprensione o dal diverso modo di ragionare, insito in ciascun idioma particolare. Per questo, allora, il suo Esperanto doveva essere semplice e intuitivo, ma anche in grado di poter esprimere concetti complessi, come appunto la fratellanza universale e una sorta di religione laico-culturale. Progetto impossibile? Niente affatto. La lingua creata a tavolino, infatti, aveva una grammatica semplicissima, contenuta in appena due facciate, e poteva essere appresa correntemente in soli 6 mesi di studio! Inoltre la sua incredibile semplicità non intaccava affatto la possibilità di espressione e formulazione di idee, anzi, tanto che si è sviluppata negli anni una letteratura esperantista molto complessa e profonda.
La realizzazione di questa sorta di utopia, quindi, all’epoca fece molto scalpore, attirando migliaia di studiosi nel primo congresso in terra francese (1905), nonché gli elogi convinti di personaggi del calibro di Tolstoj e Chaplin. Questo anche perché l’Esperanto non doveva soppiantare le altre lingue, tutt'altro. Per Zamenhof, in breve, l’educazione doveva basarsi su due livelli: l’apprendimento del proprio idioma, teso a consolidare l’identità e la cultura nazionale, e quello dell’Esperanto, volto alla creazione di un sentire comune basato su una filosofia laica e liberale. Una concezione incredibilmente moderna e a dir poco stupefacente, se si considera che risale a ben un secolo fa e che a tutt’oggi rimane un’utopia irrealizzata.
Cos’è dunque successo? Nel frattempo, purtroppo, ci sono stati due conflitti mondiali e altrettante dittature, quella stalinista e quella hitleriana, che hanno da subito notato la pericolosità di una tale visione filosofica globalizzante e antidogmatica. Proprio per questo, allora , gli esperantisti furono una categoria perseguitata, come gli ebrei o i comunisti, e l’intera famiglia di Zamenhof fu deportata nei lager. Hitler, addirittura, citò esplicitamente l’Esperanto nel suo “Mein Kampf”, affermando che andava soppresso ed eliminato. Poi seguì la divisione del mondo nei due blocchi, altrettanto ostici ai principi di fratellanza e laicità, e, dopo la caduta del Muro, l’affermazione dell’inglese a livello politico ed economico. Per il povero Esperanto e la sua illuminata filosofia, così, non c’è più stato spazio, nonostante gli evidenti vantaggi pratici ed economici che spingono da 50 anni l’Unione Europea a riproporsi continuamente di adottarlo come lingua ufficiale, risparmiando così anche sulle ingenti spese di traduzione.
Tutto questo excursus storico, quindi, era volto a evidenziare la centralità della questione linguistica, attuale soprattutto oggi che si parla di globalizzazione e di conseguente intolleranza. In particolar modo in Italia, poi, dove ultimamente stanno emergendo delle proposte molto discutibili e strumentalizzate, come l’insegnamento dei dialetti per preservare l’identità locale. I dialetti, linguisticamente parlando, sono infatti solo delle leggere varianti dell’italiano, quindi a livello di cultura e apertura mentale aggiungerebbero ben poco. Molto diverso, invece, sarebbe il discorso per una lingua straniera o universale, che davvero concorrerebbero a una forma mentis completa e aperta. Il caso più virtuoso, del resto, è rappresentato dalla Svezia, dove nelle scuole, accanto all’insegnamento serio e concreto dell’inglese, ogni settimana un’ora è riservata alla lingua madre degli immigrati. Un passo fondamentale verso la libertà di espressione e di pensiero, non una regressione e una chiusura, come si vorrebbe da noi. Ma anche qui le cose da aggiungere sul nostro sistema educativo sarebbero tante, anzi troppe.

(immagine: bandiera dell'esperanto)

domenica 25 ottobre 2009

Quando la RAI educava


Ieri mattina facendo zapping mi sono imbattuto in un lungo servizio su rai 3 dedicato alla figura di Alberto Manzi, l'allora famoso maestro della trasmissione televisiva degli anni sessanta “Non è mai troppo tardi”. Di questa figura, forse a causa della mia giovane età, devo ammettere che non avevo conoscenza, ma quell'unico servizio mi ha talmente folgorato che ho voluto approfondire le sue opere.
Alberto Manzi per primo utilizzò il mezzo televisivo a fini didattici, pensando soprattutto alle fasce sociali più deboli. Educare gli allievi a pensare era il suo obiettivo principale ed il suo metodo di lavoro era tutto strumentale a questa finalità kantiana.
Aveva tre lauree (biologia, pedagogia e filosofia) e iniziò ad insegnare presso una struttura carceraria minorile romana. Raccontava che quando per la prima volta entrò in quella classe, il capo dei ragazzi si avvicinò a lui dicendogli avrebbe dovuto starsene per tutte e quattro le ore di insegnamento seduto a leggere il giornale lasciandoli in pace. Manzi gli rispose che no, non poteva farlo perchè lui lo pagavano per insegnare. "Allora ce la giochiamo" rispose il bullo. "Come?, a carte?". "No, a botte". Avendo Manzi da poco finito la naia in marina il bullo le prese sonatamente. Della quarantina di ragazzi a cui insegnò in carcere solo tre tornarono dentro una volta usciti.
Era un grandissimo pedagogo. Attraverso il suo programma insegnò a milioni e milioni di italiani a leggere e scrivere. "Non è mai troppo tardi" fu concepito come strumento di ausilio nella lotta all'analfabetismo. Il programma riproduceva in televisione delle vere e proprie lezioni di scuola primaria, con metodologie didattiche rivoluzionarie per l'epoca, dinanzi a classi composte di adulti, soprattutto anziani, e analfabeti. Memorabile è la scena della vecchietta che a 92 anni impara a leggere senza sillabare guidata con la bacchetta da Manzi.
Fu scelto per il programma dopo aver stracciato al provino la lezione sulla lettera "o" che gli era stata consegnata come copione. Nella circostanza Manzi improvvisò una lezione alla sua maniera.
Le trasmissioni avvenivano nel tardo pomeriggio, prima di cena. Manzi scriveva con un carboncino su grandi fogli di carta montati su di un cavalletto. Accompagnava le lettere e le parole con disegnini accattivanti finalizzati ad attrarre l'attenzione dello studente. Le sue lezioni oggi potrebbero oggi definirsi "multimediali", in quanto faceva un grosso uso di strumenti quali lavagne luminose, registrazioni audio e video. Il programma venne sospeso nel 1968, anno dopo il quale Manzi tornò all'insegnamento scolastico.
Mi chiedo se la pubblica utilità ed il servizio che dava la RAI con la trasmissione "Non è mai troppo tardi" siano oggi così antistorici. Se è vero che il 44% degli italiani si avvicina ad analfabetismo di ritorno ci devono esserre delle spiegazioni. Oltre all'incapacità della scuola in generale di svolgere la sua funzione di insegnamento, credo che molta colpa abbiano anche la televisione e la RAI in particolare. La televisione è l'unico media a cui accede la stragrande maggioranza degli italiani, per questo non gli si può togliere un ruolo educativo. Certo ritornare alle lezioni di Manzi sarebbe eccessivo, ma qualcos'altro si dovrebbe fare per porre un freno alla crisi culturale che attraversiamo e che si fa sempre più grave.