mercoledì 28 ottobre 2009

I soldi che non danno la vittoria


Chi quest'estate si scandalizzò lamentandosi al bar con gli amici al veder cadere nel cesto della spesa del Real Madrid a suon di milioni di euro le stelle Kakà, Cristiano Ronaldo, Albiol, Benzema e Xabi Alonso stamattina si sarà svegliato un po' sollevato. Se quello spocchioso uso del danaro lo aveva frustrato così tanto perchè magari la sua squadra del cuore non poteva permettersi neanche una delle stelle che si stavano prendendo le merengues, forse oggi avrà dato un pensiero all'inferno della divina commedia e alla sua legge del contrappasso. Perchè ieri sera in una partita di Copa del Rey il Real Madrid ha perso 4 a 0 con l'Alcorcón, una squadra di Segunda B (la nostra serie C, pardon Prima Divisione come la chiamano i burocrati del calcio oggi).
Quanto godimento ci può essere a vedere Florentino Perez che assiste alla disfatta della propria squadra da 415 milioni di euro umiliata da una squadra con un bilancio più di quattrocento volte più basso? Molto. Soprattutto per quei tifosi di Alcorcón accorsi (con ben poche speranze di vittoria) al loro minuscolo stadio per vedere la partita.
Perchè la curiosità è che anche Alcorcón è Madrid, o meglio un municipio dell'area metropolitana di Madrid. Periferia sud-est, quella delle grandi speculazioni immobiliari che accompagnano per chilometri l'autostrada A5 in direzione dell'Extremadura e poi del Portogallo. Speculazioni che ci immaginiamo riguardino, almeno indirettamente, anche el todopoderoso presidente del Real Madrid, Florentino Perez, l'ingegnere e imprenditore che detiene il 12% della più grande compagnia di costruzioni spagnola, la Acs (Actividades de Construccion y Servicios), di cui dal 1997 è presidente.
Perez occupa la 397ma posizione nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio stimato in un miliardo e 800 milioni di dollari. I 252 milioni di euro spesi quest'estate per la campagna acquisti del Madrid devono essergli quindi sembrati bruscolini, ma non sono bastati per dargli la vittoria contro una squadra che come miglior risultato della sua storia vanta un terzo posto in serie C.
Chissà se qualcuno dei gialli tifosi dell'Alcorcón ieri sera presente all'estadio Santo Domingo vive in uno dei palazzoni costruiti da Florentino. E' probabile. Perchè Alcorcón è soprattutto palazzoni ocra e poco altro. Una città dormitorio. La popolazione, nel 1950 di 759 anime, è cresciuta con l'eccezionale inurbamento della corona metropolitana di Madrid dai 46.048 abitanti del 1970, ai 140.657 del 1980, ai 176.245 del 2006. Chi vi abita sono soprattutto pendolari che ogni mattina lasciano i loro pochi metri quadrati e prendono i treni per andare a lavorare nelle zone centrali di Madrid.
Ieri sera l'Alcorcón ha vinto 4 a 0 ma avrebbe potuto fare altri due gol. Florentino in tribuna guardava freddo i suoi miliardari umiliati da sconosciuti del calcio. Quanto è bello quando perde Golia. Quanto è bello lo sport quando mescola sogni, frustrazioni, rivalse.

martedì 27 ottobre 2009

La lingua come base per la libertà di pensiero e l'apertura mentale: l'esempio dell'esperanto


Per affrontare e analizzare una questione in modo completo bisogna sempre partire dalle strutture su cui essa si basa. Dunque, per poter parlare di libertà e liberalismo, a mio avviso è essenziale cominciare dallo strumento attraverso cui si foggia e viene espresso il nostro pensiero, ovvero la lingua, allo stesso tempo specchio e matrice tanto dell’individuo quanto della società. A prima vista, questo potrebbe sembrare un mero excursus teorico e storico, del tutto lontano dalle problematiche politiche e pratiche che ci riguardano da vicino; invece si tratta dell’esatto contrario e cercherò di dimostrarlo.
Ferdinand De Saussures, nella sua rivoluzione apportata agli studi linguistici sul finire dell’Ottocento, comprese benissimo il ruolo preponderante dell’oggetto della sua ricerca. Secondo la concezione del geniale studioso svizzero, quindi, la lingua servirebbe a plasmare e dare una forma intellegibile a una sostanza totalmente confusa e indistinta quale è il pensiero, che altrimenti non risulterebbe affatto comprensibile da parte di ciascun individuo, oltre che comunicabile ad altri. Più o meno nello stesso periodo storico, poi, il filosofo Ernst Cassirer è arrivato ad affermare che “ogni lingua fa emergere da se stessa un suo proprio mondo di significato”, mentre gli studiosi Sapir e Whorf l’hanno definita come “un prisma deformante la realtà”. In poche parole, allora, ogni nazione possiede un particolare modo di concepire il mondo e questo deriva dalla lingua in uso. Il francese, per esempio, ha una sintassi molto chiara e paratattica, ottimale quindi per le scienze, l’analisi e l’apertura di pensiero. Il tedesco, invece, è l’esatto contrario, basandosi su una struttura sintattica complessa e disposta in maniera gerarchica.
Di conseguenza, fra Ottocento e Novecento, un sogno ha pervaso gli studiosi di tutto il mondo: l’invenzione di una lingua universale. Gli esperimenti furono innumerevoli e sarebbe ora troppo lungo ricordarli tutti. Possiamo comunque citare il Solresol di François Sudre (1827), basato sulle 7 note musicali e su altrettanti colori al posto delle lettere, e il Volapùk di Johan Martin Schleyer (1879), fondato sull’assemblaggio di radici tratte da lingue diverse. Entrambi, però, fallirono a causa della scarsa praticità, dovuta nel primo caso all’insufficienza di caratteri e nel secondo a una morfologia troppo complessa e arbitraria.
Ma il colpo di genio non tardò ad arrivare e portò la firma di Ludwik Zamenhof, nel 1887. Questo studioso polacco, che di professione faceva l’oftalmologo, fin da bambino era cresciuto in un paese diviso etnicamente e linguisticamente. Per tale motivo dedicò la sua vita alla creazione di un idioma universale che si basasse su una filosofia fatta di uguaglianza, fratellanza e totale libertà di espressione. Si trattava dell’Esperanto, che per Zamenhof doveva rappresentare il superamento dei conflitti etnici e religiosi. Secondo costui, infatti, la maggior parte degli scontri nasceva dall’incomprensione o dal diverso modo di ragionare, insito in ciascun idioma particolare. Per questo, allora, il suo Esperanto doveva essere semplice e intuitivo, ma anche in grado di poter esprimere concetti complessi, come appunto la fratellanza universale e una sorta di religione laico-culturale. Progetto impossibile? Niente affatto. La lingua creata a tavolino, infatti, aveva una grammatica semplicissima, contenuta in appena due facciate, e poteva essere appresa correntemente in soli 6 mesi di studio! Inoltre la sua incredibile semplicità non intaccava affatto la possibilità di espressione e formulazione di idee, anzi, tanto che si è sviluppata negli anni una letteratura esperantista molto complessa e profonda.
La realizzazione di questa sorta di utopia, quindi, all’epoca fece molto scalpore, attirando migliaia di studiosi nel primo congresso in terra francese (1905), nonché gli elogi convinti di personaggi del calibro di Tolstoj e Chaplin. Questo anche perché l’Esperanto non doveva soppiantare le altre lingue, tutt'altro. Per Zamenhof, in breve, l’educazione doveva basarsi su due livelli: l’apprendimento del proprio idioma, teso a consolidare l’identità e la cultura nazionale, e quello dell’Esperanto, volto alla creazione di un sentire comune basato su una filosofia laica e liberale. Una concezione incredibilmente moderna e a dir poco stupefacente, se si considera che risale a ben un secolo fa e che a tutt’oggi rimane un’utopia irrealizzata.
Cos’è dunque successo? Nel frattempo, purtroppo, ci sono stati due conflitti mondiali e altrettante dittature, quella stalinista e quella hitleriana, che hanno da subito notato la pericolosità di una tale visione filosofica globalizzante e antidogmatica. Proprio per questo, allora , gli esperantisti furono una categoria perseguitata, come gli ebrei o i comunisti, e l’intera famiglia di Zamenhof fu deportata nei lager. Hitler, addirittura, citò esplicitamente l’Esperanto nel suo “Mein Kampf”, affermando che andava soppresso ed eliminato. Poi seguì la divisione del mondo nei due blocchi, altrettanto ostici ai principi di fratellanza e laicità, e, dopo la caduta del Muro, l’affermazione dell’inglese a livello politico ed economico. Per il povero Esperanto e la sua illuminata filosofia, così, non c’è più stato spazio, nonostante gli evidenti vantaggi pratici ed economici che spingono da 50 anni l’Unione Europea a riproporsi continuamente di adottarlo come lingua ufficiale, risparmiando così anche sulle ingenti spese di traduzione.
Tutto questo excursus storico, quindi, era volto a evidenziare la centralità della questione linguistica, attuale soprattutto oggi che si parla di globalizzazione e di conseguente intolleranza. In particolar modo in Italia, poi, dove ultimamente stanno emergendo delle proposte molto discutibili e strumentalizzate, come l’insegnamento dei dialetti per preservare l’identità locale. I dialetti, linguisticamente parlando, sono infatti solo delle leggere varianti dell’italiano, quindi a livello di cultura e apertura mentale aggiungerebbero ben poco. Molto diverso, invece, sarebbe il discorso per una lingua straniera o universale, che davvero concorrerebbero a una forma mentis completa e aperta. Il caso più virtuoso, del resto, è rappresentato dalla Svezia, dove nelle scuole, accanto all’insegnamento serio e concreto dell’inglese, ogni settimana un’ora è riservata alla lingua madre degli immigrati. Un passo fondamentale verso la libertà di espressione e di pensiero, non una regressione e una chiusura, come si vorrebbe da noi. Ma anche qui le cose da aggiungere sul nostro sistema educativo sarebbero tante, anzi troppe.

(immagine: bandiera dell'esperanto)

domenica 25 ottobre 2009

Quando la RAI educava


Ieri mattina facendo zapping mi sono imbattuto in un lungo servizio su rai 3 dedicato alla figura di Alberto Manzi, l'allora famoso maestro della trasmissione televisiva degli anni sessanta “Non è mai troppo tardi”. Di questa figura, forse a causa della mia giovane età, devo ammettere che non avevo conoscenza, ma quell'unico servizio mi ha talmente folgorato che ho voluto approfondire le sue opere.
Alberto Manzi per primo utilizzò il mezzo televisivo a fini didattici, pensando soprattutto alle fasce sociali più deboli. Educare gli allievi a pensare era il suo obiettivo principale ed il suo metodo di lavoro era tutto strumentale a questa finalità kantiana.
Aveva tre lauree (biologia, pedagogia e filosofia) e iniziò ad insegnare presso una struttura carceraria minorile romana. Raccontava che quando per la prima volta entrò in quella classe, il capo dei ragazzi si avvicinò a lui dicendogli avrebbe dovuto starsene per tutte e quattro le ore di insegnamento seduto a leggere il giornale lasciandoli in pace. Manzi gli rispose che no, non poteva farlo perchè lui lo pagavano per insegnare. "Allora ce la giochiamo" rispose il bullo. "Come?, a carte?". "No, a botte". Avendo Manzi da poco finito la naia in marina il bullo le prese sonatamente. Della quarantina di ragazzi a cui insegnò in carcere solo tre tornarono dentro una volta usciti.
Era un grandissimo pedagogo. Attraverso il suo programma insegnò a milioni e milioni di italiani a leggere e scrivere. "Non è mai troppo tardi" fu concepito come strumento di ausilio nella lotta all'analfabetismo. Il programma riproduceva in televisione delle vere e proprie lezioni di scuola primaria, con metodologie didattiche rivoluzionarie per l'epoca, dinanzi a classi composte di adulti, soprattutto anziani, e analfabeti. Memorabile è la scena della vecchietta che a 92 anni impara a leggere senza sillabare guidata con la bacchetta da Manzi.
Fu scelto per il programma dopo aver stracciato al provino la lezione sulla lettera "o" che gli era stata consegnata come copione. Nella circostanza Manzi improvvisò una lezione alla sua maniera.
Le trasmissioni avvenivano nel tardo pomeriggio, prima di cena. Manzi scriveva con un carboncino su grandi fogli di carta montati su di un cavalletto. Accompagnava le lettere e le parole con disegnini accattivanti finalizzati ad attrarre l'attenzione dello studente. Le sue lezioni oggi potrebbero oggi definirsi "multimediali", in quanto faceva un grosso uso di strumenti quali lavagne luminose, registrazioni audio e video. Il programma venne sospeso nel 1968, anno dopo il quale Manzi tornò all'insegnamento scolastico.
Mi chiedo se la pubblica utilità ed il servizio che dava la RAI con la trasmissione "Non è mai troppo tardi" siano oggi così antistorici. Se è vero che il 44% degli italiani si avvicina ad analfabetismo di ritorno ci devono esserre delle spiegazioni. Oltre all'incapacità della scuola in generale di svolgere la sua funzione di insegnamento, credo che molta colpa abbiano anche la televisione e la RAI in particolare. La televisione è l'unico media a cui accede la stragrande maggioranza degli italiani, per questo non gli si può togliere un ruolo educativo. Certo ritornare alle lezioni di Manzi sarebbe eccessivo, ma qualcos'altro si dovrebbe fare per porre un freno alla crisi culturale che attraversiamo e che si fa sempre più grave.