venerdì 31 dicembre 2010

Proletari Armati per il Comunismo


E alla fine Lula ha detto no all’estradizione di Cesare Battisti. Per un commento migliore di quello che potrebbe essere il mio, suggerisco lo splendido articolo di Benedetta Tobagi (figlia di Walter, giornalista assassinato nel 1980 da un gruppo terrorista di estrema sinistra) apparso su La Repubblica.
Qui mi limito a mettere in serie un po’ di dati. Cesare Battisti nasce a Sermoneta, Latina, il 18 dicembre 1954. Fin dall’adolescenza si rivela un “ragazzo difficile”: nel 1971 abbandona il liceo classico ed è segnalato più volte per atti di teppismo alle forze dell’ordine locali. Nel 1972 viene arrestato per la prima volta per una rapina compiuta a Frascati. Nel 1974 commette un’altra rapina, questa volta condita da sequestro di persona, a Sabaudia e successivamente viene anche denunciato per aver commesso “atti di libidine” (vecchia fattispecie oggi ricompresa nella violenza sessuale) nei confronti di una persona incapace. Ma è solamente nel carcere di Udine, dove viene rinchiuso nel 1977, che conosce l’ideologo dei PAC (Proletari Armati per il Comunismo) Arrigo Cavallina e decide di mettere il suo mestiere al servizio della rivoluzione proletaria armata.
Uscito di galera, tra il 1978 e il 1979, partecipa a quattro omicidi: in tre concorre nell’esecuzione, mentre del quarto viene riconosciuto come co-ideatore. A cadere per mano sua sono Antonio Santoro (maresciallo della Polizia Penitenziaria), Pierluigi Torregiani (gioielliere) e Andrea Campagna (agente della DIGOS), mentre nel caso dell’assassinio di Lino Sabbadin (macellaio) Battisti si limita a offrire “copertura armata” all’esecutore materiale Diego Giacomin.

mercoledì 29 dicembre 2010

"Fini è Berlusconi!"


L'editoriale di Maurizio Belpietro dal titolo "su Gianfranco iniziano a girare strane storie..." del 27 dicembre è solamente l'ultimo atto di una precisa strategia perseguita ormai da mesi dal Giornale e Libero volta a rovesciare la realtà e il significato delle parole. Ho già fatto notare in passato come si sia giocato sul rovesciamento di termini per far passare l'idea che Fini si sia "autoespulso" dal Pdl, e non "cacciato" come tutti i quotidiani nazionali e internazionali titolarono all'indomani della direzione nazionale che definì le idee del Presidente della Camera "incompatibili" con i valori fondamentali del partito che aveva contribuito a fondare. Idee che tra l'altro erano state esposte già nel 2008 durante l'assemblea fondativa del Pdl, ricevendo scroscianti applausi da parte dei presenti.
Il disegno è chiaro: non essendo più possibile nascondere tutti i conclamati scandali che coinvolgono il nostro Premier, la sua stampa si è specializzata nel dimostrare che tutto ciò che commette Silvio Berlusconi in realtà lo fa anche Gianfranco Fini. Sallusti, Feltri e Belpietro sputtanano scientemente il leader di Fli in modo da poter poi dire: "visto, fa tanto il moralizzatore e il chierichetto, ma poi anche lui è pieno di scheletri nell'armadio: Fini è uguale a Berlusconi". E allora tanto vale tenersi l'originale: più forte, più simpatico, invidiato da tutti per il suo grande feeling con gli Italiani, ma soprattutto l'unico in grado di comandare il Paese.

venerdì 24 dicembre 2010

Roma val bene uno Stelvio


Il Parco Nazionale dello Stelvio da oggi è un po’ meno “Nazionale”. In cambio dell’astensione sul voto di sfiducia del 14 dicembre, la SVP (Sudtiroler Volkspartei) ha infatti ottenuto lo smembramento della gestione a favore delle amministrazioni locali. Quando ci sono in gioco gli interessi dell’Alto Adige, la SVP non guarda in faccia a nessuno.
Fino al 1992 il Partito Popolare Sudtirolese si era sempre alleato alla Democrazia Cristiana, ma dal 1995 ha scelto di stare nel campo del centrosinistra: fino al 2005 è stata alleata dell'Ulivo e dal 2005 al 2008 dell'Unione. Alle elezioni politiche del 2008 la SVP si è presentata da sola alla Camera dei deputati e nei due collegi senatoriali di Bressanone-Val Pusteria e Merano-Val Venosta, mentre in alleanza con Partito Democratico e Italia dei Valori sotto le insegne della lista SVP-Insieme per le Autonomie nel collegio di Bolzano-Bassa Atesina e nei tre collegi trentini.
Pur gravitando nell’orbita del centrosinistra, gli autonomisti altoatesini non ci hanno pensato due volte a sfruttare la situazione di debolezza del Premier. Anche i loro due voti mancati alla sfiducia sono stati fondamentali nel salvare questo governo Berlusconi. "Non ci hanno detto se votate la fiducia vi daremo questo o quell'altro ma è vero che su due o tre cose ci sono state trattative con Tremonti e Calderoli", aveva annunciato prima del voto il leader della Sudtiroler Volkspartei, Luis Durnwalde, oggi raggiante per la decisione del Governo di accelerare l’iter del pacchetto di misure per l’ampliamento dell’autonomia altoatesina.

lunedì 20 dicembre 2010

Uomo nuovo Fassino


E' stato difficile ma alla fine ce l'hanno fatta. La dirigenza del Pd, incalzata sia dall'esterno dall'accoppiata Vendola-Di Pietro, sia dall'interno dal duo di rottamatori Renzi-Civati, dopo settimane di conclave ha trovato l'uomo nuovo da lanciare per la poltrona di sindaco a Torino. 
La risposta torinese al sindaco-bambino di Firenze Matteo Renzi (classe 1975) si chiama Piero Franco Rodolfo Fassino (classe 1949). A dispetto dell'età, Piero ha un grande avvenire davanti a sè. I maligni dicono che sia stato paracadutato da Roma, ma in realtà questa opportunità lui se l'è guadagnata sul campo con tanta gavetta.  Prima di poter aspirare alla guida del capoluogo piemontese, Fassino è emerso tra tanti militanti per arrivare a ricoprire il ruolo di Ministro della Giustizia nel governo Amato e Ministro del Commercio estero nel governo D'Alema. E' stato deputato prima per il Partito Comunista Italiano, poi per il PDS, poi per i Democratici di Sinistra e infine per il Partito Democratico. Dal 2001 al 2007 è stato anche Segretario dei DS. Ma l'aver passato 20 anni a Roma non ha indebolito in alcun modo il suo legame con Torino, dove ha mantenuto casa e dove ancora vive sua madre. Con Piero, il Pd mette sul tavolo il suo asso all'insegna dell'innovazione e del cambiamento.
Come si fa a non esaltarsi per questo uomo nuovo? Finalmente sarà possibile sfatare il detto morettiamo "con questi dirigenti non vinceremo mai" e mostrare che anche i candidati del Pd possono vincere le primarie del Pd, non solo quelli di Vendola. Anche se non c'è più Giovanni Consorte a sostenerlo e il sogno di avere una banca è definitivamente tramontato, Piero sa che questa occasione non può lasciarsela scappare. Il partito lotta unito insieme a lui. Il reggente Chiamparino l'ha già incoronato: "è lui il nome giusto". Sicuro. Ma la persona giusta, forse, è un'altra. 

Vignetta di Makkox

domenica 19 dicembre 2010

Quando La Russa tifava per Di Pietro e Gasparri bloccava il Parlamento


C'è stato un tempo in cui La Russa tifava per Di Pietro. Un tempo in cui la legalità era un argomento di vitale importanza per la destra italiana. Un tempo in cui l'Msi poteva vantare un primato morale in questo campo mentre Psi e Dc venivano spazzati via da tangentopoli. Un primato che porterà Gianfranco Fini a sfiorare la vittoria a sindaco di Roma nel 1993, quando Forza Italia era solamente poco più di un'idea che frullava  nella testa di Marcello Dell'Utri.
In quel tempo Riccardo De Corato, candidato sindaco del Msi, si incatenava al portone di via Foppa e mostrava un cartello: "Craxi in libertà, manette all'onestà". C'erano infatti anche i missini a tirare le monetine a Craxi davanti all'hotel Rafael. Il coro "Bettino vuoi pure queste?", cantato sventolando in aria le mille lire, era il più gettonato. C'era una destra che appendeva manifesti insieme a sinistra e Lega Nord con scritte come "Vergognatevi, non avete dignità" o "Ridateci i nostri soldi".
Il primo aprile 1993 un centinaio di ragazzi protetti da una pattuglia di parlamentari missini (Buontempo, Nania, Maceratini, Rositani, Martinazzo, Pasetto, Matteoli, Poli Bortone e Gasparri) bloccavano per 50 minuti l’ingresso di Montecitorio. Ricorda Filippo Facci che «quei ragazzi indossavano magliette con la scritta "Arrendetevi, siete circondati" mentre quei deputati che osarono sfidare il blocco vennero insultati e spintonati al grido di "ladri, mafiosi, figli di puttana"; è tutto verbalizzato da una nota del Ministero dell’Interno. Contro il palazzo vennero tirate monetine con delle fionde sicchè una porta di vetro andò in frantumi. Gli slogan chiedevano lo scioglimento delle Camere. Pochi giorni prima un parlamentare di An si era presentato con la maglietta [un vero must, ndr] "Fuori il bottino, dentro Bettino" e alcuni suoi colleghi avevano roteato delle spugnette indossando dei guanti bianchi, ciò mentre un altro deputato di An ciondolava un paio di manette e ancora un altro deputato leghista srotolava un celebre cappio».

venerdì 17 dicembre 2010

Ma Futuro e Libertà la rivoluzione liberale vuole farla davvero


All’indomani del voto di fiducia che ha “premiato” Silvio Berlusconi con un governo di minoranza (giova ricordare che il Premier ha ottenuto alla Camera soltanto 314 suffragi, mentre in quell’aula la maggioranza si raggiunge a quota 316) molti analisti politici si sono sbizzarriti nell’enfatizzare la vittoria del Presidente del Consiglio. “Fli si spacca”, “Berlusconi umilia Fini”, “Fini sbaglia tutto” sono solo alcuni dei commenti più gettonati in questi giorni. 
Certamente Futuro e Libertà non ha conseguito il risultato di portare a palesarsi anche in Parlamento la crisi di governo, tuttavia da qui a definire fallito il nostro progetto ce ne passa. In primo luogo non si può dire che Fli si sia “spaccato”: in verità solo tre deputati si sono tirati indietro al momento della verità, purtroppo influenzati dalle sirene dei posti di governo o dei vantaggi per le aziende familiari. D’altronde se un piatto si spacca lo fa in decine di pezzi e da questo punto di vista Fli si è solo scheggiato. La compagine finiana è comunque rimasta ben compatta e nutrita sia alla Camera sia in Senato. A livello territoriale poi, abbiamo registrato un incremento delle nostre adesioni direttamente legato al voto di sfiducia. 
In secondo luogo non si capisce come possa essere considerata una vittoria schiacciante un voto vinto grazie al cambio di casacca di deputati provenienti dalle fila del centrosinistra, sia del PD, sia dell’Italia dei Valori. Qui ci sarebbe molto da riflettere sulle vere ragioni che possono spingere due parlamentari dipietristi (fino al giorno prima antiberlusconiani nel midollo) ad abbandonare Di Pietro, ma sono convinto che i cittadini capiscano perfettamente come siano andate le cose. Gli italiani sono tutto meno che stupidi.

venerdì 3 dicembre 2010

Luigi Einaudi e il valore legale del titolo di studio


[…] Il mito del “valore legale” del diploma scolastico è davvero insostituibile? Un qualunque mito è accettato se e finché nessun altro mito è reputato per consenso generale più vantaggioso. Il giorno in cui si riconobbe che il metodo del rompere la testa agli avversari politici era caduto in discredito – ma era durato a lungo, per secoli e per millenni – e si accettò la tesi del contare le teste invece di romperle; l’accettazione non si basò su un ragionamento. […]
Il mito del valore legale dei diplomi statali non è, dicevasi, fortunatamente siffatto da dover essere accettato per mancanza di concorrenti. Basta fare appello alla verità, la quale dice che la fonte dell’idoneità scientifica, tecnica, teorica o pratica, umanistica, professionale non è il sovrano o il popolo o il rettore o il preside o una qualsiasi specie di autorità pubblica; non è la pergamena ufficiale dichiarativa del possesso del diploma. […] Giudice della verità della dichiarazione è colui il quale intende giovarsi dei servizi di un altro uomo, sia questi fornito o non di dichiarazioni più o meno autorevoli di idoneità. Le persone o gli istituti i quali, rilasciando diplomi, fanno dichiarazioni in merito alla dottrina teorica od alla perizia pratica altrui godono di variabilissime reputazioni, hanno autorevolezze disformi l’uno dall’altro. Si va da chi ha aperto una scuola e si è acquistato reputazione di capace o valoroso insegnante in questo o quel ramo dello scibile; ed un tempo, innanzi al 1860, fiorivano, particolarmente in Napoli, codeste scuole private ad opera di uomini, che furono poi segnalati nelle arti, nelle lettere e nelle scienze. Che cosa altro erano le “botteghe” di pittori e scultori riconosciuti poi sommi, se non scuole private? V’era bisogno di un bollo statale per accreditare i giovani usciti dalla bottega di Giotto o di Michelangelo?

giovedì 2 dicembre 2010

Generazione Risorgimento


Carlo Azeglio Ciampi da Presidente della Repubblica ha posto al centro del suo settennato il tema dell’unità d’Italia. Ha girato tutte le città della penisola, ha parlato direttamente a migliaia e migliaia di italiani, dal nord al sud, e ha rivitalizzato i simboli della nazione, dal tricolore all’inno di Mameli. È da poco uscito “Non è il paese che sognavo”,  libro che raccoglie i pensieri e le considerazioni di Ciampi sopra l’Italia attuale. Dal “taccuino” che raccoglie i colloqui del presidente emerito della Repubblica con Alberto Orioli emergono purtroppo giudizi amari sulla società italiana e molti rimpianti per ciò che non è stato fatto o conservato a dovere. Il Paese in cui viviamo appare molto diverso da quello che sognava  sia chi 150 anni fa si batteva e dava la vita per l’ideale un’Italia unita, sia chi 62 anni fa partecipava alla stesura della Costituzione di uno Stato che doveva provare a rialzarsi unito dopo le tragedie e le distruzioni della seconda guerra mondiale.  
Le riflessioni di Ciampi abbracciano tutti i settori della società italiana: esse spaziano dall’economia all’educazione (“pane dell’anima”), dalla storia alla psicologia del nostro popolo. Particolarmente caro al presidente Ciampi è però il discorso dell’unità nazionale. Nei 150 della nostra Patria egli vede una vitale occasione per recuperare i valori dell’epopea risorgimentale. Nel libro il presidente si rivolge soprattutto ai giovani, e li invita a prendere d’esempio i tanti ragazzi che hanno formato l’Italia col loro sangue. La generazione del Risorgimento era infatti formata da “giovani pieni di passione. Pensiamo a Goffredo Mameli, morto poco più che ventenne. Ai martiri di Belfiore, ai tanti che seguirono Garibaldi tra i Cacciatori delle Alpi e liberarono Varese, Como, Bergamo. La passione di quella generazione era arricchita dal senso di responsabilità, formatosi sulla conoscenza della storia e della nostra cultura”.

mercoledì 1 dicembre 2010

La migliore politica estera degli ultimi 150 anni


"Silvio Berlusconi è il nostro miglior amico": più che un chiarimento, da Hillary Clinton è arrivata la classica pezza. Mentre il Segretario di Stato americano lodava l'opera dell'Italia come suo primo alleato, dall'etere traspariva un'atmosfera comunque tesa in seguito alla pubblicazione dei giudizi dell'ambasciata americana sul nostro Premier. 
Quelle trapelate non sono certo cose che gli italiani non sapessero già, anzi. Sembrano tipici segreti di Pulcinella. Che la politica estera berlusconiana indispettisse l'alleato americano c'era da aspettarselo. Che gli USA preferiscano un interlocutore che non sia Berlusconi, lo si evince dai suoi freddi rapporti con l'amministrazione Obama. I bei tempi delle scampagnate texane con George W. Bush sono passati. Ma più che le gag sull'abbronzato presidente afroamericano ciò che spinge gli USA ad avere poca fiducia nell'Italia sono le amicizie pericolose del nostro Presidente del Consiglio con i vari Putin, Gheddafi, Lukashenko. 
La politica estera della pacca sulla spalla (copyright by Italo Bocchino), o dei tarallucci e vino offerti al dittatore di turno non paga nel momento in cui quello che dovrebbe essere il tuo principale alleato ti definisce "incapace, vanitoso, e inefficace come moderno leader europeo" (feckless, vain, and ineffective as a modern European leader). D'altra parte gli USA vedono con sospetto il compagno Vladimir Putin: "un politico autoritario il cui stile maschilista gli permette di andare perfettamente d'accordo con Silvio Berlusconi".

giovedì 11 novembre 2010

"Noi credevamo": noi al cinema lo guardiamo


Quanto oggi la cultura in Italia venga trascurata non lo si capisce solo dalla domus dei gladiatori che crolla miseramente in una Pompei abbandonata a sé stessa o dalle migliaia di precari dell’università, ma anche da cose in paragone più piccole, come dimostra il caso di un film sul Risorgimento in uscita in questi giorni. La pellicola, diretta da Mario Martone, si intitola “Noi credevamo” ed è un nostrano kolossal da quasi 7 milioni di euro interpretato dal meglio del cinema italiano: il cast comprende infatti attori come Lo Cascio, Servillo, Zingaretti, Francesca Inaudi e Anna Bonaiuto. La storia che si racconta è quella «di tre ragazzi del sud Italia che in seguito alla feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 maturano la decisione di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Attraverso quattro episodi che corrispondono ad altrettante pagine del processo risorgimentale per l’unità d’Italia, le vite di Domenico, Angelo e Salvatore vengono segnate tragicamente dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari, sospese tra rigore morale e pulsione omicida, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci ideali e disillusioni politiche. Sullo sfondo, la storia più sconosciuta della nascita del paese, dei conflitti implacabili tra i “padri della patria”, dell’insanabile frattura tra nord e sud, delle radici contorte su cui sì è sviluppata l’Italia in cui viviamo».

domenica 31 ottobre 2010

Idee per un nuovo Secolo


A prescindere da come si concluderà nel breve periodo la fastidiosa vicenda che sta mettendo a rischio l’esistenza stessa di una testata storica come il Secolo d’Italia, ciò che appare chiaro è che il futuro riserverà in ogni caso grandi cambiamenti al quotidiano di via della Scrofa. Sarà inevitabile recidere i legacci che ora lo tengono stretto anche a chi lo considera sprezzantemente come “un house organ e non un giornale di destra” (La Russa). In verità il Secolo d’Italia non è il mattinale di Futuro e Libertà: semmai è Fli che sta concretizzando nella sua azione idee e prospettive anticipate dal Secolo. In questo senso la politica del quotidiano si è rivelata assolutamente vincente: l’idea di portare in edicola un giornale post-An, anticonformista e capace di riconoscere e valorizzare le ragioni degli altri, ha consentito di raddoppiare i lettori.
Il Secolo è diverso dagli altri giornali “di destra”, perché è l’unico che, nel suo piccolo, ha avuto la volontà e la capacità di assumere il ruolo di avanguardia culturale per provare a delineare un nuovo futuro. Ancora oggi si parla spesso di egemonia culturale della sinistra: bisogna ammettere che a leggere Il Giornale, Libero o La Padania, essa è pienamente giustificata. Quello diretto da Flavia Perina è l’unico quotidiano che prova a scardinare quegli schemi preimpostati che assegnano alla cultura di destra un valore minoritario.

venerdì 29 ottobre 2010

Voce del verbo "bunga bunga"


Dal Grande Dizionario Illustrato Italiano-Berlusconiano, Zanichelli, 2010.
Bunga bunga [vc. dotta, dal gheddafiano unga bunga] s. f. (med.). 1. Viene chiamata in questo modo l'abitudine del padrone di casa d'invitare alcune ospiti, le più disponibili, a un dopo-cena erotico. Donna Ruby racconta che Silvio disse che copiò la formula del "bunga bunga" da Gheddafi, il quale introdusse per primo tale rito del suo harem africano.
2.  Gioco onomatopeico che al di là del senso del grottesco, "viene descritto da Ruby agli esterrefatti pubblici ministeri milanesi con molta vivezza, addirittura con troppa concreta vivezza" (la Repubblica). Si diffonde nelle modalità del sexy e maschilista cerimoniale che è stato raccontato da Mu'ammar Gheddafi e importato tra le risate ad Arcore. La stessa Donna Ruby indica che cosa si faceva e chi lo faceva con un lungo elenco di nomi celebrati e popolari, in televisione o in Parlamento.
3. Brutale stupro anale, inflitto come forma di punizione a chi oltrepassa i territori delle tribù (Urban Dictionary). Si tramanda a tal riguardo la canzone "Silvio (o altro nome di fantasia) ballava nudo al centro della tribù, ma da quando l'ha preso in c**o, Silvio (o altro nome di fantasia) non balla più".
v. tr. Fare bunga bunga, di solito in compagnia, oltre che di giovani avvenenti veline cubiste igieniste dentali ora consigliere regionali, anche di Lele Mora ed Emilio Fede, "ma se non stai attento vai in galera per colpa dell'Af(r)ica" (Elio e le Storie Tese).

giovedì 21 ottobre 2010

La finestra di CasaPound


Il loro simbolo è la tartaruga: un animale che ha la fortuna di portare sempre con sé la propria casa, perché chiunque dovrebbe averne una. Loro sono i ragazzi di CasaPound, che un libro uscito da poco (Nessun dolore, Domenico Di Tullio, Rizzoli) si è preso il dovere di raccontarci da dentro, riuscendoci molto bene. Il romanzo, scritto dall’avvocato penalista che segue da sempre l’associazione, riesce a portarci nel mezzo di un ambiente che è difficile immaginare da fuori, se non affidandosi ai propri pregiudizi. 
E proprio un grande pregiudizio il libro vuole sfidare: quello di chi dipinge CasaPound solamente come un “covo di fasci”, violenti per ipotesi e sempre primi ad attaccar briga. Dalle pagine del romanzo traspaiono invece idee, valori, cultura e tanta vita. I “blocchetti” manifestano e protestano, ma non si fermano a parlare male di una cosa, non si limitano a criticare senza provare a cambiarla. Impegnarsi per abbattere lo status quo significa elaborare proposte e progetti. Non si tirano indietro dall’omaggiare personaggi storicamente di sinistra come Che Guevara, o Rino Gaetano: “diranno che cerchiamo di arraffare un’icona della contestazione, che vogliamo consumare la solita appropriazione indebita di roba loro. È esattamente il contrario: siamo così forti e sicuri di quello che sentiamo che, se vediamo una battaglia buona dall’altra parte, abbiamo il coraggio e l’umiltà di riconoscerla e indicarla pure ai nostri”.

lunedì 18 ottobre 2010

Tessera del tifoso: solo marketing


La questione ormai non tocca solo le curve, ma abbraccia la maniera di intendere il calcio in Italia in modo trasversale. Non sono stati solo gli appartenenti al mondo del pallone a criticare l’iniziativa del ministro leghista Maroni (da Lippi a Zamparini): le lamentele sono arrivate anche da dentro il Parlamento. Paola Frassinetti, Maurizio Paniz e Antonio Buonfiglio, tutti deputati del Pdl, hanno criticato infatti in maniera anche decisa la tessera del tifoso, difendendo le posizioni delle curve, “l’anima del tifo” allo stadio.
Tuttavia l’analisi più interessante della situazione è arrivata dal giornalista e scrittore Maurizio Martucci (ultima pubblicazione: Cuori Tifosi, Sperling & Kupfer, 2010), il quale ha descritto al Secolo d'Italia il provvedimento di Maroni come una complessa operazione di marketing. Innanzitutto il primo falso argomento da confutare è che all’estero le tessere del tifoso siano come quelle che si vogliono introdurre in Italia: “all’estero il modello è esattamente il contrario di quello voluto dal ministro Maroni e dall’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive – dice Martucci – perchè in Germania, Portogallo, Spagna e Inghilterra la tessera del tifoso non è obbligatoria ma facoltativa. Viene vissuta come un privilegio, non come un’imposizione calata dall’alto: non è necessaria per abbonarsi allo stadio. Non è una carta di credito e nemmeno una carta ricaricabile”.

giovedì 14 ottobre 2010

La Serbia ha sempre ragione


Per capire cosa sarebbe potuto accadere se gli eventi di Genova fossero degenerati in scontri cruenti, bisogna fare un salto indietro con la memoria al 17 settembre 2009: a Belgrado si giocava la partita di Europa League tra il Partizan e il Tolosa. Brice Taton, tifoso della squadra francese, venne aggredito con alcuni suoi connazionali da un gruppo di ultras serbi. Morì dopo dodici giorni, il 29 settembre 2009, a causa delle ferite riportate.
Sinceramente non capisco chi dice che martedì sera il calcio ha perso, solo perché non si è giocato una partita. Quando è a rischio la sicurezza pubblica e la vita stessa sia dei tifosi che degli agenti di polizia, coerenza ed esperienza ci dicono che la sospensione di una partita è il prezzo minore che deve essere pagato al bene superiore dell'integrità fisica e della vita umana. Il fatto che gli ultras serbi abbiano ucciso un tifoso straniero solo un anno fa in occasione di un’altra partita di livello internazionale forse non è stato ricordato abbastanza.
La violenza nel calcio serbo e balcanico è un fenomeno costante che è esploso con i conflitti armati nei Balcani e la disgregazione della vecchia Federazione jugoslava, unitamente al rafforzarsi dei sentimenti nazionalisti. Le tifoserie di Partizan e Stella Rossa sono tra le più violente al mondo, e uniscono le loro forze in occasione degli incontri della nazionale serba.

martedì 12 ottobre 2010

Bene o male, purché se ne parli


Sono anni che il meglio degli opinionisti politici ci dice che attaccare Silvio Berlusconi sfruttando le inchieste giudiziarie e gli scandali personali è inutile, perchè ciò gli consente di presentarsi come una vittima giustificando gli attacchi che subisce come prove di un disegno eversivo che accomuna toghe rosse e giornali comunisti. Questa visione è condivisa da molti, sia giornalisti che politici, tanto che per riuscire a batterlo si viene sempre consigliati di portare il Cavaliere sul campo di battaglia delle proposte e delle idee (cosa che la sinistra spesso e volentieri non è riuscita a fare, perdendo tre volte).
Oggi che il governo Berlusconi perde consensi e che in due anni è riuscito a fare poche o nulle riforme liberali (vedasi l’Indice delle Liberalizzazioni 2010 a cura dell’Istituto Bruno Leoni), impegnato tra lodi alfano e leggi anti-intercettazioni, qualcosa sembra essersi rotto, forse proprio perché qualcuno all’interno del centro-destra ha portato il dibattito dal piano degli attacchi personali a quello delle idee.
Intanto il continuo crescere di credibilità del presidente della Camera si spiega con la creazione di un vasto movimento culturale (dalla Fondazione FareFuturo a Libertiamo) i cui esponenti rappresentano i suoi uomini più fidati e consiglieri politici. Se da una parte c’è chi scende, dall’altra c’è chi sale: ma allora non è che quella legge non scritta che sconsigliava gli attacchi personali stia ora soffiando a favore di Fini, come prima fece per Berlusconi?

domenica 10 ottobre 2010

Per la pace non ci sono sbarre


Per la pace non ci sono sbarre che tengano. Dopo il passo falso dello scorso anno, con la consegna di un Nobel assai prematuro a Barack Obama, l'Accademia ha quest'anno centrato il premio, consegnandolo al dissidente cinese Liu Xiaobo. "Un'oscenità" secondo il Partito Comunista Cinese. Una prova di coraggio, secondo noi. Un coraggio che forse manca a tanti governi occidentali, sempre più timorosi a sfidare il gigante-mercante.

(vignetta di Forges)

venerdì 8 ottobre 2010

Scherzare col fuoco


Nicola Porro scherzava. Rinaldo Arpisella un po’ meno. Emma Marcegaglia per nulla.
A prescindere da quelle che saranno le conseguenze penali dell’inchiesta avviata dalla Procura di Napoli nei confronti di Nicola Porro e Alessandro Sallusti (Vittorio Feltri l’ha scampata essendosi dimesso da direttore giusto un paio di settimane fa per gli strascichi della sospensiva dell’Ordine nei suoi confronti), ciò che appare chiaro è che la macchina del fango era pronta a partire un’altra volta, questa volta contro la presidenta di Confindustria, rea di aver rilasciato un’intervista al Corriere della Sera fortemente negativa nei confronti del Governo. “Non ha… non sembra berlusconiana..., è una stronza”: nelle parole del vicedirettore del Giornale troviamo la giustificazione alla reiterazione del trattamento Boffo. È sempre così: chi critica il capo deve essere screditato, punito. E non si guarda in faccia a nessuno. 
“Domani super pezzo giudiziario sugli affari della family Mercegaglia”, “Adesso ci divertiamo per venti giorni, romperemo il cazzo alla Mercegaglia come pochi al mondo”, “Spostati i segugi da Montecarlo a Mantova”: da Gianfranco Fini ad Emma. Lo stile feltriano è questo, signori. E poco importa che il trattamento non sia infine entrato in funzione anche per lei: il fatto che esso sia stato bloccato tramite l’intercessione di Fedele Confalonieri (terzo braccio del nostro Premier) richiesta dalla signora di Confindustria, dimostra che tutte le storielle del tipo “Feltri fa quello che vuole; mi fa più male che bene; io non ho potere sul Giornale” sono appunto solo storielle. Il Giornale è un manganello da usare contro chi dissente.

lunedì 4 ottobre 2010

Gli xenofobi di casa nostra


“Lo sapete che in ogni Paese occidentale esiste un partito xenofobo, ma in nessuno è al governo? Sapete che la destra francese ha perso le presidenziali dell’81 e dell’88 e perderà quelle del 2012, pur di non allearsi con gli xenofobi? E che Cameron non si sognerebbe mai di allearsi con il British National Party?”. Aldo Cazzullo dalle colonne di Sette ci invita a riflettere sulle scorrettezze della politica nostrana, e in particolare sulle problematiche che comporta avere al governo un partito come la Lega Nord che dopo vent’anni di vita continua a parlare principalmente alla pancia dei cittadini.
In questi ultimi mesi hanno suscitato clamore le notizie giunte dall’Olanda e dalla Svezia, dove partiti xenofobi di estrema destra hanno ottenuto grandi risultati elettorali sfruttando “la paura del diverso”. Ai problemi dell'immigrazione e della sicurezza rispondono con il richiamo alle armi per una nuova crociata contro la "rivoluzione islamica". Nei Paesi Bassi il Partito della Libertà (lì Pvv) del biondissimo Geert Wilders è decisivo nell’appoggiare esternamente la coalizione di governo formata da liberal-conservatori e cristiano-democratici, mentre a Stoccolma l’estrema destra della Sverigedemokraterna è entrata per la prima volta in Parlamento superando ampliamente lo sbarramento del 4%. Queste formazioni si contraddistinguono per le posizioni fortemente anti-islamiche e il loro vincente mix di populismo e xenofobia è il medesimo che in Italia viene cavalcato dal partito di Umberto Bossi.

sabato 2 ottobre 2010

Il Venezuela dice no a Chávez


Il Venezuela ha detto no. Il progetto di Hugo Chávez di trasformare il Paese in uno Stato socialista deve fermarsi. Il 52% dei venezuelani ha infatti votato per le opposizioni riunite sotto il cartello di Unidad Nacional. L’opposizione può così ora affermare di essere la maggioranza, seppur avendo formalmente perso le elezioni: su 165 seggi, ne sono stati attribuiti 95 al governo e 64 all’ opposizione, con 6 ancora da definire. Il sistema elettorale infatti in Venezuela favorisce chi vince nelle zone meno popolose e più povere, quali quelle amazzoniche, da sempre fortino del Psuv, il partito socialista unitario di Chávez. Recenti modifiche hanno accentuato queste caratteristiche e reso la vita ancora più difficile all’opposizione, la quale comunque è riuscita a mettere in minoranza il chavismo alla conta dei voti popolari. Il segnale dato resta fortissimo: Chavez dovrà fare qualche passo indietro, ma sicuramente non rinuncerà a perseguire il suo obiettivo. 
Marina Corina Machado, 43 anni, esponente dell’opposizione è però fiduciosa e ha commentato così il risultato elettorale: “il Venezuela ha detto no al comunismo, alla trasformazione di un Paese democratico in una nuova Cuba, verso un sistema economico fuori dal tempo. Quando la domanda è chiara, se la gente preferisce una società militarista e antagonista oppure aperta e democratica, il Venezuela non ha dubbi. Sapevo che eravamo maggioranza e il voto l’ ha dimostrato, nel mezzo di tutti i trucchi e le omissioni del governo”.

giovedì 30 settembre 2010

Noi giovani, futuristi per natura


“Futuro e Libertà per l’Italia”: partire da un nome per proseguire un progetto. “Futuristi”: aggettivo nobile, storico, artistico, ma da meritarsi. Sicuramente ci farebbe piacere un giorno passeggiare e venire riconosciuti per questo: “guarda, quelli sono i nuovi futuristi!”. Un futurismo certo più politico che artistico, ma d’altronde anche lo stesso Filippo Tommaso Marinetti aveva nel 1918 creato il Partito Politico Futurista con lo scopo di tradurre nella lotta politica gli ideali del movimento futurista.
“Noi ci ribelliamo alla suprema ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e dell'entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l'abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita”: nel 1910 Umberto Boccioni criticava la staticità dell’arte pittorica e i passatisti (coloro che amano esclusivamente il passato). Allo stesso modo oggi noi critichiamo l’immobilismo della politica italiana e la mancata apertura di una stagione dinamica e riformista.
“Giovani futuristi”: suona maledettamente bene. Così bene da sembrare un’endiadi. D’altra parte noi giovani siamo per natura futuristi: per spirito d’iniziativa, per dinamismo, per la volontà di essere avanguardia. C’è qualcosa che ci spinge a riconoscere sempre prima degli altri le buone idee, quelle da cui derivano mode e rivoluzioni. Forse perché il futuro noi un po’ già lo viviamo nel presente, essendo i cittadini di domani. O forse perché abbiamo il coraggio di buttarci in una cosa, senza stare a pensarci troppo, senza masturbazioni mentali. Ci basta riconoscere il giusto e il sbagliato, per scegliere il giusto.

giovedì 23 settembre 2010

Il pirata dei Caraibi


E patacca dai Caraibi fu. Sono bastate meno di 24 ore al Fatto Quotidiano per smascherare il falso documento oggi sbandierato in prima pagina da Feltri e Belpietro come prova di colpevolezza contro Gianfranco Fini per l'affaire Montecarlo. La stamperia di Stato di Saint Lucia afferma infatti che il documento Tulliani non è il loro. Una brutta copia, ma soprattutto un brutto colpo per i lettori del Giornale e di Libero: proprio quando si sentivano vicini alla fine della loro appassionante caccia al tesoro, devono iniziare tutto da capo. Ma la prova che Fini mentiva era lì, pubblicata dall'autorevolissimo periodico online El Nacional di Santo Domingo per 12 ore e poi misteriosamente scomparsa. Vatti a fidare dello Stato di Santa Lucia. Vatti a fidare dei servizi segreti italiani. Vatti a fidare di tale Valter Lavitola, editore dell'Avanti!.
Il pirata con la bandana sembra aver perso la rotta. Piccoli berluscones troppo zelanti rubano il timone al proprio capitano, ma commettono solo guai. Si sa che in mare gli ascari servono a poco.
Le vedette vedono nero all'orizzonte. In mezzo a tale tempesta il quotidiano d(ella famiglia d)i Silvio ci dimostra ogni giorno che è meglio una cacca oggi che una montagna di merda domani. In tutto questo ci chiediamo dove sia finito l'obbligo di verifica della veridicità di una notizia. La risposta esatta è: in vacca.

"Il dettaglio è rilevante. La carta pubblicata da Libero e da il Giornale infatti, differisce in alcuni preziosi particolari da quella ufficiale. Le due intestazioni sotto lo stemma statale, per cominciare, sono scritte con due caratteri diversi da quelli del modello. Ma il passaggio fondamentale è un altro e Aimable ce lo spiega involontariamente: se la NPC non fornisce carte digitali modificabili, perché sul documento pubblicato da Libero e da il Giornale compare un hyperlink sotto l’indirizzo di posta elettronica dell’ufficio del ministro? In una carta intestata, quella scritta non dovrebbe esserci. A rigor di logica questo significa solo una cosa: che il documento è stato composto al computer, ma non su quella carta". da ilfattoquotidiano.it

giovedì 16 settembre 2010

Il PD e la sindrome di Tafazzi


Io il PD non lo si capisco. Ben inteso, non è il mio partito, non sono i miei leader, ma da spettatore interessato di politica ogni giorno comunque mi sforzo di trovarci qualcosa nel PD, un'idea, un sussulto, un vaghito. Ma ogni giorno puntualmente non ci trovo nulla, zero assoluto. Di quest’ultima settimana passata ci rimangono in serie il “ragassi rimbocchiamoci le maniche” di Bersani travestito da Crozza, la lettera dei quarantenni Giovani Turchi del PD (mai scelta del nome fu più infelice) e i dolori dell’altro nongiovane Walter che dopo aver perso le primarie anche per interposta persona se ne esce con l’idea di creare suoi nuovi gruppi parlamentari, che oggi vanno di moda. Poi ritratta e si limita a “preparare un documento” per difendere il PD “com’è nato”. 
Non so se Veltroni abbia ragione o torto, e non è mio compito appurarlo, ma la sua mossa arriva con tempismo perfetto ad affossare ancora una volta quella pur minima credibilità che Bersani stava ritrovando autolanciatosi molto faticosamente domenica scorsa dal palco della Festa nazionale dell’Unità - pardon, Festa Democratica. Geniale. Prima davanti al rischio elezioni fanno vedere a tutta Italia di avere una paura matta di andare al voto, poi iniziano a sproloquare di improbabili alleanze costituzionali da Vendola a Fini (questa della Bindi, incredibile, mi ha fatto avere un po’ di pena per i miei amici che turandosi il naso li vanno ancora a votare), poi invitano Di Pietro alla loro festa e si fanno portare via i voti da lui tra l'altro riempiendo di fischi Marini, infine si autoflagellano le parti bassi alla maniera del miglior Tafazzi proprio quando Berlusconi è così alla frutta da cercare di comprare i parlamentari dell’Italia dei Valori con la promessa di pagargli il mutuo sulla casa. Più o meno lo stesso refrain che va avanti da sedici anni: nel tennis la paura di perdere la chiamano “braccino”, ma qui a furia di darsi mazzate siamo al “gomito del tennista”. 

lunedì 13 settembre 2010

Tutte insieme fanno pensare


46 prime pagine consecutive "dedicate" a Fini. Oggi per la prima volte dal 28 luglio il Giornale di Feltri non dedica il titolo principale al nemico n°1 del Capo. Tranquilli, però. L'ossessione continua nelle pagine interne.  

(Immagine da Freddy Nietzsche)

La leggenda del sindaco pescatore


Acciaroli (Pollica). Angelo Vassallo era un sindaco italiano, rispettoso della legge e delle istituzioni, convinto ambientalista. In questi anni aveva trasformato il territorio che amministrava in una piccola isola felice la cui economia veniva trainata dal turismo. Sapeva che il rispetto del mare e del proprio territorio sono le basi per dare un futuro a questo Paese immensamente ricco di risorse naturali, ma anche immensamente autolesionista e travagliato dal male.
La Camorra lo ha ucciso con sette colpi di pistola in faccia il 5 settembre 2010. Come spesso avviene in questi casi, Angelo Vassallo probabilmente era stato lasciato troppo solo. Certe sue denunce erano cadute nel vuoto.
E' stato ammazzato perchè simbolo di buongoverno e di argine al malaffare. Un delitto "esemplare", un avvertimento per gli altri sindaci che si battono per la legalità.
La speranza è che questi anni di amministrazione siano stati d'esempio per la sua comunità, e che la sua eredità e la sua leggenda continuino a lungo a plasmare positivamente sia chi ha avuto la possibilità di conoscerlo, sia chi lo ricorderà come un esempio e un martire dello Stato.

giovedì 9 settembre 2010

Cronaca di un comunicato


Torno da Mirabello che è l’una e mezza di notte. Fabio mi lascia giù, dovrà farsi un’altra mezz’oretta prima di arrivare a casa sua. Lo ringrazio e rimaniamo d’accordo di sentirci la mattina seguente: dobbiamo fare il comunicato stampa da inviare ai quotidiani locali. Chiave nel cancello, poi l’ascensore e infine il portone. Entro in casa e accendo subito il computer: la voglia di conoscere le reazioni al discorso di Gianfranco è troppa. Guardo i titoli dei giornali online: la Stampa, il Corriere, la Repubblica, il Giornale. Per adesso sono più o meno gli stessi: “Il Pdl non c’è più”, “Fini offre un patto di legislatura”. Sul sito della Stampa propongono un istant poll: alla domanda “Vi è piaciuto il discorso di Fini?” rispondo sì, come l’81% dei voti totali. Giusto il tempo di dare un ultima occhiata a facebook (non sono l’unico alle due di notte appena tornato da Mirabello), e poi a letto. Domani svegliarsi sarà complicato.
Mattina. Devo scrivere il comunicato stampa: sento Fabio e decidiamo come impostarlo. Mi riguardo un po’ del discorso del giorno prima. Che discorso. Ripenso ai passaggi principali, a quelli da sottolineare: la gente si chiederà cosa faremo adesso. Mi rivedo il giorno prima, tra la folla, con gli amici che mi hanno seguito fino in questo paesino della pianura ferrarese. Per molti di noi è la prima volta qui, ma più in generale è la prima volta che facciamo politica; abbiamo iniziato solo da qualche mese, quasi per caso. Penso che questo sia già un grosso risultato in tempi in cui tantissimi giovani non vanno neanche a votare. L’hanno detto in molti e a ragione: a Mirabello è tornata la passione.

mercoledì 8 settembre 2010

Intanto una generazione è andata persa


“Ma dove sono i trentenni e i quarantenni?”. Domanda tragica che negli ultimi tempi ho dovuto pormi due volte: la prima partecipando ad un coordinamento comunale del Pdl, la seconda assistendo alla presentazione nella mia città del Partito della Nazione (la nuova creatura di Casini). Di questi tempi si parla tanto di disaffezione dei giovani verso la politica, ma a mio parere si sbaglia nel considerare questa disaffezione un tratto distintivo dei ventenni. La generazione che veramente la politica ha perso è quella dei nati negli anni settanta e cresciuta nei ruggenti ottanta.
In queste prime settimane di vita, GenerazionItalia mi ha dato la possibilità di guardare da dentro la politica cittadina e di conoscere qualche protagonista. Devo dire che si avverte molto la mancanza della generazione dei trentenni-quarantenni, perchè rende più difficile il dialogo tra i gruppi giovanili e l’establishment di partito, generalmente formato da persone con almeno un cinquantina d’anni, se non di più: il divario culturale è evidente e in qualche modo ripropone dinamiche familiari. Le conseguenza negativa è la chiusura in sé stessa della comunità giovanile anche all’interno di un partito.
Ma perché si è persa questa generazione? La risposta che mi do è duplice. Da una parte ci sono le barriere all’ingresso che la classe politica italiana ha messo tra sé e le nuove leve negli ultimi vent’anni. Questo è un problema che parte dai vertici: la Lega è sempre Bossi, Berlusconi è finora stato l’unico collante per la destra, il PD è ancora D’Alema contro Veltroni.

mercoledì 25 agosto 2010

L'importanza di chiamarlo "Caimano"


In principio fu il film di Moretti del 2006: il termine “caimano” entrò per la prima volta nelle sale cinematografiche per indicare Silvio Berlusconi, ma non fu un successo. Chi si aspettava una lunga e appassionata cavalcata delle valchirie contro il berlusconismo rimase deluso. Scontenti furono anche quelli che nel film di Moretti videro niente di più che una commedia (come peraltro annunciato dal regista), con i blocchi dedicati al Presidente a spuntare il contenuto invece di arricchirlo. Invero le sfortunate vicende familiari del simpatico Silvio Orlando appassionavano molto più delle riflessioni sul Premier. 
Quattro anni dopo però il termine “caimano” sembra ormai sdoganato. Non occorre per forza leggere la Repubblica o il Fatto: anche su quotidiani come Corsera e Stampa ogni giorno è possibile trovare parole come “caimano”, “regime”, “dittatore” in riferimento alla politica di Berlusconi. Ma che significato dare alla diffusione di questa terminologia anche tra i giornalisti e gli intellettuali più moderati? Negli ultimi mesi abbiamo dovuto assistere ai violenti attacchi dei falchi berlusconiani contro ogni forma di dissenso, sia politico che culturale. Il caso Boffo è individuabile come lo spartiacque: in quel momento molti cattolici e moderati si sono resi conto di essere di fronte a persone disposte a tutto pur di far tacere il dissenso e le critiche. 
Nelle ultime settimane e giorni il metodo Boffo è diventato regola. Alle delusioni e preoccupazioni espresse da Montezemolo o Famiglia Cristiana non abbiamo visto rispondere sul piano dei contenuti, ma solamente su quello degli sberleffi (“scenda in politica”), e degli insulti volgari (“questa è pornografia”). L’epico dossieraggio condotto dal Giornale della famiglia Berlusconi contro il presidente Fini e le costanti critiche e accuse rivolte al Presidente della Repubblica ci mostrano il volto aggressivo del Pdl, quello che rifiuta ogni dialogo. Quello del Caimano.

martedì 10 agosto 2010

Vietato vietare la musica


Verona. Il sindaco leghista Flavio Tosi nega a Morgan l’autorizzazione per il concerto del 4 settembre all' Arena. Questo perché "uno che si vanta di fare uso di cocaina perché è depresso e lo dice apertamente, non può venire ad intrattenere il pubblico veronese dal momento che il suo è un messaggio altamente diseducativo per i giovani". Proviamo a prescindere sia dai precedenti del sindaco Tosi (condannato dalla Cassazione a a 4 mila euro di multa e alla sospensione per tre anni dai pubblici comizi per istigazione alla discriminazione razziale) sia da quella famosa e contestata intervista in cui Morgan ammise di aver fatto uso di cocaina. Il dato che ci rimane è che siccome il sindaco della città di Verona ritiene l’artista in questione “un esempio negativo per i giovani” viene cancellato un concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra di Ravel e tutto il resto dello spettacolo, composto da una parte del repertorio di Morgan mixato con brani di Nino Rota, Tenco, Bindi e De André.
De André. Chissà cosa direbbe oggi Fabrizio della decisione del sindaco Tosi.
Questo noi oggi non lo possiamo sapere, ma sappiamo invece che l’esempio negativo in questa vicenda non lo dà Morgan, bensì il primo cittadino veronese. Perché quando si vieta la musica, non si può mai avere ragione. I giovani lo sanno, e sanno anche scegliersi da soli i loro esempi e punti di riferimento. Non hanno bisogno del paternalismo populista e autoritario del sindaco leghista. Non si fanno abbindolare dai falsi moralisti.

venerdì 9 luglio 2010

Horror Show: l'Aquila era già morta, Fini fuori dalle palle


Giorgio Clelio Stracquadanio (Pdl, ex Forza Italia), alla Camera dei Deputati: "Bisogna dire qualche verità. Un sindaco di una città governa, non incita alla rivolta. Se ha qualcuno con cui deve protestare è di fronte allo specchio... Se si fosse fatta L'Aquila 2 gli oneri di urbanizzazione sarebbero stati più semplici... Noi abbiamo offerto all'Aquila una vocazione che non aveva più o che aveva perso, perchè quella era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto. E il terremoto ne ha certificato la morte civile. Il governo ha proposto all'Aquila di fare una grande università di carattere internazionale, una nuova Harvard italiana, e ci è stato risposto che volevamo cementificare... Siamo noi che dobbiamo andare all'Aquila a manifestare contro di loro, e non il contrario".


Iva Zanicchi (Eurodeputata Pdl, ex Forza Italia), a RadioDue : "Va' che mi sta sulle palle. Fini non è del Pdl. Ma che fondatore... anch'io ho fondato l'asilo... [incompresibile] Io stimo tanto Fini però fuori dalle palle... No, io stimo tanto Berlusconi. Mi auguro e spero che lui possa ancora una volta con una zampata da leone, qual'è, riesca a risistemare le cose".

giovedì 8 luglio 2010

Sciopero della stampa anti-bavaglio: che errore!


Questa volta Vittorio Feltri ha ragione. La sua lettera pubblicata sul Giornale la settimana scorsa ha colto nel segno e insinuato seri dubbi sull'utilizzo dello sciopero come forma di protesta contro il ddl intercettazioni: "Cari giornalisti con una scelta linguistica efficace avete definito 'legge bavaglio' la normativa che disciplina le intercettazioni vietandone la pubblicazione. E allo scopo di protestare contro la prossima approvazione del bavaglio ve lo mettete in anticipo e volontariamente. Infatti, dopo la manifestazione di ieri, l'8 luglio scioperate e i giornali non saranno in edicola. Fantastico. Non sapevo che il diritto di dare le notizie si difendesse non dandole". Touché. 
Anche il suo acerrimo nemico Marco Travaglio si è mostrato in questo caso d'accordo con Feltri. Ieri ha ripreso la questione sul Fatto, rivolgendosi alla Federazione nazionale della stampa, la quale ha indetto lo sciopero per domani 9 luglio: siamo "sicuri che la forma più efficace di protesta contro il bavaglio sia autoimbavagliarci per un giorno? Non sarebbe meglio uscire tutti in edizione straordinaria, listata a lutto, in forma di dossier con le intercettazioni e gli atti d’indagine più importanti di questi anni che, col bavaglio in vigore, non avremmo potuto pubblicare? Chi protesta contro il bavaglio lasciando campo libero ai trombettieri dell’imbavagliatore ricorda quel tale che, per far dispetto alla moglie, si tagliò… bè, ci siamo capiti."

mercoledì 7 luglio 2010

L'acqua della Patagonia nelle mani dell'ENEL


Luís Infanti, vescovo della Patagonia cilena, sta portando avanti un’audace battaglia contro il progetto HidroAysén, il quale minaccia 12 riserve forestali protette, con 15.645 devastati dagli impianti, e altri 4.6 milioni di ettari di paesaggi naturali degradati: un elettrodotto ad alta tensione attraverserà la Patagonia, fino alla capitale, con 2.200 chilometri di linee ad alta tensione, toccando otto regioni e 64 comuni. Il progetto è oggi portato avanti da Enel, la quale nel 2009 ha acquisito Endesa, la più grande società di energia elettrica in Spagna, e che godeva in Chile dei derechos de agua grazie ad una ingiusta legge promulgata da Pinochet sotto dittatura militare. 
Alla fine di aprile il vescovo Infanti, originario di Longarone (paese che subì più di tutti la tragedia del Vajont), è riuscito partecipare a Roma all’assemblea deglia azionisti Enel grazie all’intercessione della Fondazione Culturale della Banca Etica. Nel suo intervento di 10 minuti Infanti ha provato a spiegare le ingiustizie legate ad un simile progetto faraonico. 
“Oggi c’è gente di tutto il mondo interessata alla Patagonia e ai fiumi Baker e Pascua. La regione dell’Aysén ha perso la sua caratteristica tranquillità per il progetto di cinque mega-dighe che sono destinate a distruggere buona parte delle riserve naturali del nostro territorio”. La decisione definitiva di approvare il progetto Endesa-Enel non è ancora stata presa. Ma le imprese energetiche fanno pressioni sul governo affinchè questo dia il suo via libera. “L’energia che si conta di produrre per la Patagonia, non andrà a beneficio della stessa Patagonia, ma a quello delle imprese minerarie situate a più di 2.000 km di distanza dalla regione, nel nord del Chile”. La Patagonia rappresenta una delle riserve d’acqua più grandi del pianeta, per questo le imprese energetiche hanno molto interesse ad essere padroni della sua acqua. 

martedì 29 giugno 2010

Montanelli e Guillet


Andando a scavare nell’archivio storico del Corriere della Sera, ho scoperto che una grande amicizia legava Indro Montanelli ad Amedeo Guillet. Un’amicizia alimentata da una stima profonda verso le gesta di cui fu autore il Comandante Diavolo. In tanti in questi giorni abbiamo ricordato il paragone che Indro fece tra Lawrence d’Arabia e Guillet. Nessuno però ha riportato la frase conclusiva di quella stanza: “Ecco perche' io mi ostino a sentirmi e a voler essere ancora italiano: perche' in Italia, in mezzo a tanto letame, ci sono ancora i Durand e i Guillet”. Eroi ormai di altri tempi ed epoche, le cui imprese appaiono oggi molto difficili da comprendere a chi la guerra la vede ogni giorno, ma solo in televisione. Simboli di fedeltà all’Idea di Italia, incarnata prima del 1948 anche dalla Corona. Protagonisti di un nazionalismo romantico, che qualcuno confonde con molta superficialità con il bellicismo fascista. 
La prima volta che Montanelli vide Guillet fu in guerra: “lo conobbi nel ' 36 a Gondar, anche se allora non facemmo in tempo a stringere amicizia. Comandavamo entrambi una piccola formazione di truppe indigene, ma gia' i suoi amhara a cavallo lo chiamavano Communtar as sciaitan, Comandante Diavolo per tante che ne faceva”. Avrebbe potuto scrivere lui una grande storia dell’amico, ma non la fece per rispetto dell’opera altrui: “Potrei riempire pagine su Guillet, ma non voglio mettermi in concorrenza con Segre, che di lui ha gia' detto tutto”.

domenica 27 giugno 2010

"Tutta colpa dei mondiali": le parole di Aldo Brancher


Al Tg3: “È una cosa indecente. Non ho mai visto l’Italia, dopo aver perso i Mondiali, che se la prenda con me. Ma scusi, eh! Ma è una vergogna! Mi ritengo una persona equilibrata e onesta, di buon senso. Io ho sempre lavorato e continuo a lavorare. Io ho un sacco di deleghe che devo cercare di realizzare, di portare avanti.”
Ma quali sono queste deleghe? “Sono quelle che son scritte. Tutto quello che c’è scritto. Oggi è domenica. Penso che non va disturbato nessuno di domenica, no?"

A Skytg24: “Quello che ho registrato e visto in questi ultimi due tre giorni è una cosa che non m’aspettavo. Sono veramente stupito da scoprire che l’Italia è fatta veramente di cattiveria, di odio a tutti i livelli. In questo momento io sono sereno. Devo proteggere la mia famiglia, i miei bambini. E soprattutto il riflesso che queste cose vergognose hanno dal punto di vista personale, intimo e degli affetti personali. Io sono sereno, sono tranquillo. Mi pare che si voglia mestare nel torbido. Non ho altro da dire.”

sabato 26 giugno 2010

Dalla BAT-provincia al Medio Campidano


Se chiedete al ministro Roberto Calderoni di chi è il merito non solo della Provincia di Monza e Brianza, ma anche di quelle di Fermo e di Barletta-Andria-Trani, vi risponderà raggiante che è tutto suo: “non riuscivano a schiodarsi e a un certo punto ho detto: ora o mai più; e le ho fatte”. Fu infatti il suo intervento a risolvere l’impasse politico che ostacolava la creazione della provincia brianzola, con la più classica delle contrattazioni: per farla hanno tirato dentro anche Fermo e Barletta-Andria-Trani. 
In teoria ci sarebbe una legge che impedisce di fare province che abbiano meno di 200.000 abitanti, ma certe leggi in Italia si sa, sono opinioni. Fermo ad esempio è stata fatta anche se arriva solo a 160.000 abitanti. Moltiplicazione delle province significa moltiplicazione delle poltrone. 
Ma la BAT-provincia è la più forte di tutte. Dentro al “mostro a tre teste” si era scatenata una guerra intestina per avere la sede della Provincia (finita da poco ad Andria). Ad Andria dicevano: “ce la devono dare o qui si fa la guerra civile”. A Barletta, dove già c’era la Prefettura rispondevano: “se la mettono ad Andria sarà uno scippo e un furto”. Trani con il mare e il Tribunale rimaneva fuori dalla disputa. A Bisceglie la gente si chiede come ha fatto a finire nella BAT, tutti baresi erano. Certo è che una provincia che nasce divisa non incomincia nel migliore dei modi.
Nel 2005 in Sardegna oltre alle quattro province già esistenti ne vengono create altrettante: Medio Campidano, Carbonia Iglesias, Ogliastra e Olbia Tempio, tutte con pochi abitanti e capoluoghi improbabili. Originariamente solo quella di Olbia era prevista, ma intanto che ne potevano fare una, ne hanno fatte quattro. Il Medio Campidano (sigla VS, le iniziali di Villacidro e Sanluri), prima compreso nella provincia di Cagliari è l’emblema di questo spreco di soldi pubblici: 28 comuni e 103.500 abitanti pari al 6,5% della popolazione sarda, territorio con molta campagna e una delle coste più belle della sardegna (la costa verde), 117 dipendenti e 33 politici. Nel 2008 sul totale delle spese pari a 27,3 milioni di euro, il 44% è stato usato per mantenere l’ente stesso. Senza contare che l’istituzione della nuova provincia è costata anche a quella originaria di Cagliari un aumento delle spese, senza nessun vantaggio per la collettività. Più spese e meno risorse: se i costi per la politica (per le nuove province) aumentano, diminuiscono i soldi per i servizi ai cittadini.

venerdì 25 giugno 2010

Brancher, il ministro per legittimo impedimento


Mi scusino il Corriere della Sera e Pierluigi Battista, ma forse una informazione veramente indipendente in certi casi dovrebbe tirare fuori un po' più - fatemi passare il termine - le palle. Che Aldo Brancher sia stato nominato ministro solo ad uso e consumo della recente legge sul legittimo impedimento non è solo un leggitimo sospetto (come scriveva ieri Battista), bensì una certezza, un fatto, una verità. Un giornale così importante dovrebbe trovare il coraggio di descrivere chiaramente i fatti, senza girarci intorno utilizzando sofismi e giri di parole per esprimere una critica, qui lapalissiana e sacrosanta. Il mio legittimo sospetto è allora che ci sia un po' di paura a chiamare da quelle parti le cose come stanno.
"Aldo Brancher, neo ministro del Governo Berlusconi, deve organizzare il ministero e non può essere presente in aula nel processo Antoneveneta nei suoi confronti." Cvd, come volevasi dimostrare: è proprio questa la motivazione depositata dai difensori di Brancher, in vista dell'udienza di sabato prossimo.
Il Premier Silvio Berlusconi ha creato dal nulla un ministero solo per salvare dal processo il suo amico Aldo Brancher (ex dirigente del gruppo fininvest): è così difficile in questo paese dire le cose come stanno? Probabilmente sì. 
Per lui è stato creato il ministero per l'Attuazione del federalismo (ma non è detto che sia questo il nome definitivo, forse diventerà Sussidiarietà e decementramento). Un ministero "pazzesco", senza senso, le cui competenze sono svolte già da almeno altri tre ministeri: Riforme istituzionali (Bossi), Affari regionali e autonomie locali (Fitto), Semplificazione normativa (Calderoli).
L'importante era farlo ministro per godere della illegittima legge sul legittimo impedimento, e così è stato fatto. Brancher non sa ancora nemmeno come si chiamerà il suo ministero e cosa dovrà fare (ammesso che faccia mai qualcosa), ma intanto è probabile che i giudici stralcino la posizione del ministro accusato di appropriazione indebita, e proseguano il processo per la moglie, anch’ella imputata.
E' difficile dire che questi ci prendono per il culo? Probabilmente sì, ma qualcuno deve pur dirlo. O almeno scriverlo.

lunedì 21 giugno 2010

Amedeo Guillet, l'ultimo Cavaliere


Avevo scoperto la sua storia una notte d'estate con un documentario de La storia siamo noi, su RaiTre. Era nato nella mia città, Piacenza, il 7 febbraio 1909. Era figlio sia del nord che del sud, di genti piemontesi e capuane. La sua gioventù l'aveva donata all'Italia, iscrivendosi all'Accademia Militare di Modena, da cui uscì con i gradi di sottotenente di Cavalleria nel 1931. Veniva chiamato Cummandar as Shaitan, Comandante Diavolo, e Ahmed Abdallah al Redai, ma il suo vero nome era Amedeo Guillet. 
Scriveva di lui il grande Indro Montanelli: "se, invece dell'Italia, Guillet avesse avuto alle spalle l'impero inglese, sarebbe diventato un secondo Lawrence. È invece soltanto un Generale, sia pure decorato di medaglia d'oro, che ora vive in Irlanda, perché lì può continuare ad allevare cavalli e (a quasi novant'anni) montarli. Quando cade e si rompe qualche altro osso (non ne ha più uno sano), mi telefona...". 
Lo storico Sergio Romano lo descriveva come "uno dei più audaci e spericolati ufficiali di cavalleria dell'esercito italiano in Africa Orientale. Dopo la disfatta del 1941, Guillet non volle abbandonare il Paese e divenne capo di una banda di cavalieri eritrei, etiopici e arabi, la Gazelle Force, che continuò a combattere dietro le retrovie dell' esercito britannico. Vestiva panni arabi ed era accompagnato da una giovane donna, figlia di un capo, bella, orgogliosa, audace come un guerriero. Cominciò così una caccia alla volpe in cui la volpe sbucava improvvisamente dalla boscaglia per colpire il cacciatore e scompariva all' orizzonte in una nuvola di polvere e sabbia. Qualche mese dopo, inseguito dagli inglesi, dovette nascondersi a Massaua. Era piccolo, asciutto, aveva i baffi, la barba corta, i capelli neri, sopracciglia folte, la carnagione piuttosto scura e parlava arabo. Non si chiamava più Guillet, ma Ahmed Abdallah al Redai. Per sopravvivere e sottrarsi alle ricerche degli inglesi fece l' acquaiolo sino al giorno in cui, aiutato dai suoi amici indigeni, poté attraversare il Mar Rosso e trovare rifugio nello Yemen dove strinse amicizia con la famiglia regnante. Quando vi tornò, molti anni dopo, come ministro d' Italia, l' Imam a cui presentò le sue credenziali, lo guardò con un sorriso e gli disse: «Sei tornato a casa finalmente»."

sabato 19 giugno 2010

Notti (e cene) mondiali


Chiedo scusa per questo post che abbassa decisamente il livello del blog. Tuttavia volevo farvi partecipi della felicità che ho provato scattando questa foto al televisore durante Notti Mondiali. Ignoravo fino ad allora che due giovani cronisti, Maurizio Costanzo e Giampiero Galeazzi, avessero un posto fisso nel commentare i mondiali di calcio sulla rete ammiraglia della Rai, in diretta da Piazza di Siena, Villa Borghese, Roma. Perchè in Sudafrica non puoi mai sapere che ti danno da mangiare.