lunedì 8 febbraio 2010

Il ponte sul Po crollato a Piacenza: nessuno paga i danni


Avé al dann ill la beffa: con queste comprensibili parole in dialetto piacentino è possibile riassumere la vicenda del ponte sul Po crollato lo scorso 30 aprile 2009. Non è stato come se una città fosse stata tagliata a metà, ma quasi, poiché esercizi commerciali sono presenti senza soluzione di continuità da una sponda all’altra del fiume. Ai disagi patiti da chi ogni giorno deve spostarsi dal lodigiano alla città emiliana, si aggiungono le perdite economiche degli esercizi commerciali, mitigati solo a fine ottobre con l’apertura del ponte provvisorio. Da una parte vi sono i centri commerciali situati sulla sponda lombarda, che hanno per lungo tempo perso i consumatori piacentini, dall’altra vi sono le botteghe cittadine che hanno rispettivamente dovuto fare a meno dei lodigiani. Prime stime individuano in un 30% il calo di clientela che hanno patito gli esercenti piacentini a causa della perdita di una grossa fetta dei consumatori del lodigiano.
Tuttavia le Confcommercio di Piacenza e di Lodi per ora non hanno avanzato richieste di danni contro ANAS per la scarsa attenzione nel curare lo stato di salute del ponte. Questo forse perché si fatica ad individuare lo strumento giuridico adeguato.
La normativa della class action all’italiana (introdotta nel 2008) presenta infatti due limiti importanti:

1) si ritiene operi solo nel campo degli illeciti contrattuali;
2) riconosce la legittimazione ad esperire l’azione solo ad enti od associazioni di consumatori limitando il potere di iniziativa dei singoli soggetti a cui invece in America è concesso il potere di avviare la procedura radunando progressivamente gli altri consumatori danneggiati.
La procura di Lodi nelle sue perizie ha sancito che il crollo è stato causato da un cedimento strutturale dovuto al degradamento dei materiali, e non alla piena del Po, con la quale ANAS aveva inizialmente cercato di discolparsi. Ciò è stato in particolare confermato da alcuni pennuti che avevano saggiamente deciso di trasferirsi in comodi buchi situati all’interno dei piloni, ma soprattutto dal pessimo stato dell’acciaio – in buona parte arrugginito – che sosteneva il manto stradale.
Chi paga allora i danni? Nessuno: un’azione civile potrebbe essere lunga, dispendiosa e dall’esito non scontato. Inoltre potrebbe avere l’effetto collaterale di indispettire ANAS, la quale sta finanziando la ricostruzione del ponte, provocando così indirettamente un allungamento dei lavori.
La situazione sfiora il tragicomico se si tiene in conto che già prima del crollo si parlava di costruire un secondo ponte, dato l’eccessivo traffico cui era costretto a sopportare il primo.
Inoltre pochi anni fa è stato inaugurato ad alcune centinaia di metri il ponte dell’Alta Velocità: una struttura stupenda e costosissima che però nessun cittadino vede, né può utilizzare. Mi chiedo se non si poteva fare come in altri paesi europei dove i ponti più importanti ormai sono tutti polifunzionali: ferrovia, strada, ciclabile tutto insieme. Il modello che ho in mente è il Ponte di Øresund, il quale collega Svezia e Danimarca. Non avrebbe avuto bisogno di una simile struttura - fatte le dovute proporzioni - il passaggio tra la Lombardia e l’Emilia Romagna?
Piacenza doveva avere due ponti. Adesso ne ha mezzo. Ma galleggiante.

(nella prima immagine in alto il ponte stradale sul Po dopo il crollo: alcune macchine finirono in acqua, ma fortunatamente non vi furono vittime; nella seconda il ponte dell'Alta Velocità a Piacenza durante i lavori di realizzazione)