sabato 17 settembre 2011

L'apartheid italiano nel mercato del lavoro


Per descrivere il dualismo oggi esistente in Italia nel mercato del lavoro è ormai lecito e non eccessivo parlare di "apartheid". In Sudafrica esso fu un regime razziale supportato da una motivazione culturale prima che economica molto robusta, ovvero la necessità che una minoranza ricca ed estremamente capitalizzata, quella bianca, rimanesse proprietaria della maggior parte delle risorse salvaguardando i propri privilegi e il proprio dominio su una popolazione nera, la stragrande maggioranza, affamata non solo dal punto di vista alimentare ma anche e soprattutto da quello della ricerca di opportunità. 
In italia è presente oggi un regime di apartheid forse più sfumato ma comunque inflessibile: difatti di fronte ad una fetta di garantiti e tutelati che va via via assottigliandosi col tempo abbiamo una fascia sempre più grande di esclusi e non garantiti, di precari. 

L'espressione più emblematica di questo regime la rinveniamo nel mercato del lavoro dipendente: da una parte abbiamo i contratti precari, gli stagisti, i praticanti avvocati, i nuovi professionisti che si sono inventati professioni senza riconoscimento, mentre dall'altra resiste un'"elite" di garantiti che benificiano ancora di un welfare e di regole fatte quando il paese poteva ancora permettersi il lusso di mandare in pensione le persone a 50 anni, di mantenere in vita ordini professionali dotati di regole quasi medievali e di favorire sistematicamente le grandi imprese a scapito delle piccole. Questa elite viene da tempi in cui l'italia cresceva a doppia velocità, ma è evidente che questa società oggi non c'è più.  
Oggi garantiti e non garantiti sono padri e figli, con il figlio che fa lo stagista gratuito e può sopravvivere in una grande città solo con i soldi che gli passa il padre. 
In Sudafrica il regime dell'apartheid iniziò a rompersi quando qualche bianco si rese conto che le cose in quel modo non potevano più andare avanti. Allo stesso modo anche in Italia devono allora essere dei bianchi, ovvero dei padri, a rompere questo regime. Ma ciò può soltanto avvenire con riforme strutturali in materia economica e del mercato del lavoro che mettano al primo posto la tutela dei diritti e degli interessi dei giovani, delle donne, delle piccole imprese e degli immigrati che lavorano e producono per il nostro Paese. 
Negli anni '90 il bacino dei contratti co.co.co. fu gonfiato a dismisura commettendo un gravissimo errore: venne introdotto il contratto a progetto ma non si ingrandì il sistema delle tutele per le collaborazioni coordinate e continuate. I risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti.  E' ormai arrivato il momento di mettere mano al sistema, magari stabilendo un contratto unico di lavoro subordinato, da una parte non applicando più l'art. 18, ma dall'altra prevedendo sia un'entità di risarcimento molto importante che sostituisca la reintegrazione, sia strumenti anche di formazione che agevolino il lavoratore a trovare nel minor tempo possibile un nuovo impiego.