martedì 27 ottobre 2009

La lingua come base per la libertà di pensiero e l'apertura mentale: l'esempio dell'esperanto


Per affrontare e analizzare una questione in modo completo bisogna sempre partire dalle strutture su cui essa si basa. Dunque, per poter parlare di libertà e liberalismo, a mio avviso è essenziale cominciare dallo strumento attraverso cui si foggia e viene espresso il nostro pensiero, ovvero la lingua, allo stesso tempo specchio e matrice tanto dell’individuo quanto della società. A prima vista, questo potrebbe sembrare un mero excursus teorico e storico, del tutto lontano dalle problematiche politiche e pratiche che ci riguardano da vicino; invece si tratta dell’esatto contrario e cercherò di dimostrarlo.
Ferdinand De Saussures, nella sua rivoluzione apportata agli studi linguistici sul finire dell’Ottocento, comprese benissimo il ruolo preponderante dell’oggetto della sua ricerca. Secondo la concezione del geniale studioso svizzero, quindi, la lingua servirebbe a plasmare e dare una forma intellegibile a una sostanza totalmente confusa e indistinta quale è il pensiero, che altrimenti non risulterebbe affatto comprensibile da parte di ciascun individuo, oltre che comunicabile ad altri. Più o meno nello stesso periodo storico, poi, il filosofo Ernst Cassirer è arrivato ad affermare che “ogni lingua fa emergere da se stessa un suo proprio mondo di significato”, mentre gli studiosi Sapir e Whorf l’hanno definita come “un prisma deformante la realtà”. In poche parole, allora, ogni nazione possiede un particolare modo di concepire il mondo e questo deriva dalla lingua in uso. Il francese, per esempio, ha una sintassi molto chiara e paratattica, ottimale quindi per le scienze, l’analisi e l’apertura di pensiero. Il tedesco, invece, è l’esatto contrario, basandosi su una struttura sintattica complessa e disposta in maniera gerarchica.
Di conseguenza, fra Ottocento e Novecento, un sogno ha pervaso gli studiosi di tutto il mondo: l’invenzione di una lingua universale. Gli esperimenti furono innumerevoli e sarebbe ora troppo lungo ricordarli tutti. Possiamo comunque citare il Solresol di François Sudre (1827), basato sulle 7 note musicali e su altrettanti colori al posto delle lettere, e il Volapùk di Johan Martin Schleyer (1879), fondato sull’assemblaggio di radici tratte da lingue diverse. Entrambi, però, fallirono a causa della scarsa praticità, dovuta nel primo caso all’insufficienza di caratteri e nel secondo a una morfologia troppo complessa e arbitraria.
Ma il colpo di genio non tardò ad arrivare e portò la firma di Ludwik Zamenhof, nel 1887. Questo studioso polacco, che di professione faceva l’oftalmologo, fin da bambino era cresciuto in un paese diviso etnicamente e linguisticamente. Per tale motivo dedicò la sua vita alla creazione di un idioma universale che si basasse su una filosofia fatta di uguaglianza, fratellanza e totale libertà di espressione. Si trattava dell’Esperanto, che per Zamenhof doveva rappresentare il superamento dei conflitti etnici e religiosi. Secondo costui, infatti, la maggior parte degli scontri nasceva dall’incomprensione o dal diverso modo di ragionare, insito in ciascun idioma particolare. Per questo, allora, il suo Esperanto doveva essere semplice e intuitivo, ma anche in grado di poter esprimere concetti complessi, come appunto la fratellanza universale e una sorta di religione laico-culturale. Progetto impossibile? Niente affatto. La lingua creata a tavolino, infatti, aveva una grammatica semplicissima, contenuta in appena due facciate, e poteva essere appresa correntemente in soli 6 mesi di studio! Inoltre la sua incredibile semplicità non intaccava affatto la possibilità di espressione e formulazione di idee, anzi, tanto che si è sviluppata negli anni una letteratura esperantista molto complessa e profonda.
La realizzazione di questa sorta di utopia, quindi, all’epoca fece molto scalpore, attirando migliaia di studiosi nel primo congresso in terra francese (1905), nonché gli elogi convinti di personaggi del calibro di Tolstoj e Chaplin. Questo anche perché l’Esperanto non doveva soppiantare le altre lingue, tutt'altro. Per Zamenhof, in breve, l’educazione doveva basarsi su due livelli: l’apprendimento del proprio idioma, teso a consolidare l’identità e la cultura nazionale, e quello dell’Esperanto, volto alla creazione di un sentire comune basato su una filosofia laica e liberale. Una concezione incredibilmente moderna e a dir poco stupefacente, se si considera che risale a ben un secolo fa e che a tutt’oggi rimane un’utopia irrealizzata.
Cos’è dunque successo? Nel frattempo, purtroppo, ci sono stati due conflitti mondiali e altrettante dittature, quella stalinista e quella hitleriana, che hanno da subito notato la pericolosità di una tale visione filosofica globalizzante e antidogmatica. Proprio per questo, allora , gli esperantisti furono una categoria perseguitata, come gli ebrei o i comunisti, e l’intera famiglia di Zamenhof fu deportata nei lager. Hitler, addirittura, citò esplicitamente l’Esperanto nel suo “Mein Kampf”, affermando che andava soppresso ed eliminato. Poi seguì la divisione del mondo nei due blocchi, altrettanto ostici ai principi di fratellanza e laicità, e, dopo la caduta del Muro, l’affermazione dell’inglese a livello politico ed economico. Per il povero Esperanto e la sua illuminata filosofia, così, non c’è più stato spazio, nonostante gli evidenti vantaggi pratici ed economici che spingono da 50 anni l’Unione Europea a riproporsi continuamente di adottarlo come lingua ufficiale, risparmiando così anche sulle ingenti spese di traduzione.
Tutto questo excursus storico, quindi, era volto a evidenziare la centralità della questione linguistica, attuale soprattutto oggi che si parla di globalizzazione e di conseguente intolleranza. In particolar modo in Italia, poi, dove ultimamente stanno emergendo delle proposte molto discutibili e strumentalizzate, come l’insegnamento dei dialetti per preservare l’identità locale. I dialetti, linguisticamente parlando, sono infatti solo delle leggere varianti dell’italiano, quindi a livello di cultura e apertura mentale aggiungerebbero ben poco. Molto diverso, invece, sarebbe il discorso per una lingua straniera o universale, che davvero concorrerebbero a una forma mentis completa e aperta. Il caso più virtuoso, del resto, è rappresentato dalla Svezia, dove nelle scuole, accanto all’insegnamento serio e concreto dell’inglese, ogni settimana un’ora è riservata alla lingua madre degli immigrati. Un passo fondamentale verso la libertà di espressione e di pensiero, non una regressione e una chiusura, come si vorrebbe da noi. Ma anche qui le cose da aggiungere sul nostro sistema educativo sarebbero tante, anzi troppe.

(immagine: bandiera dell'esperanto)