Il loro simbolo è la tartaruga: un animale che ha la fortuna di portare sempre con sé la propria casa, perché chiunque dovrebbe averne una. Loro sono i ragazzi di CasaPound, che un libro uscito da poco (Nessun dolore, Domenico Di Tullio, Rizzoli) si è preso il dovere di raccontarci da dentro, riuscendoci molto bene. Il romanzo, scritto dall’avvocato penalista che segue da sempre l’associazione, riesce a portarci nel mezzo di un ambiente che è difficile immaginare da fuori, se non affidandosi ai propri pregiudizi.
E proprio un grande pregiudizio il libro vuole sfidare: quello di chi dipinge CasaPound solamente come un “covo di fasci”, violenti per ipotesi e sempre primi ad attaccar briga. Dalle pagine del romanzo traspaiono invece idee, valori, cultura e tanta vita. I “blocchetti” manifestano e protestano, ma non si fermano a parlare male di una cosa, non si limitano a criticare senza provare a cambiarla. Impegnarsi per abbattere lo status quo significa elaborare proposte e progetti. Non si tirano indietro dall’omaggiare personaggi storicamente di sinistra come Che Guevara, o Rino Gaetano: “diranno che cerchiamo di arraffare un’icona della contestazione, che vogliamo consumare la solita appropriazione indebita di roba loro. È esattamente il contrario: siamo così forti e sicuri di quello che sentiamo che, se vediamo una battaglia buona dall’altra parte, abbiamo il coraggio e l’umiltà di riconoscerla e indicarla pure ai nostri”.
Così “definirsi di destra o di sinistra è il modo migliore che ha un uomo per darsi dell’imbecille”: il loro manifesto politico lo hanno chiamato “estremocentroalto” per cercare di volare alto e uscire dal conformismo asfittico dell’Italia odierna. Ritornare a dare contenuti culturali alla politica nel mondo postideologico si fa sempre più necessario, perché – lo ripetiamo spesso anche noi – fine delle ideologie non significa fine delle idee. Ciononostante riconoscere le proprie radici è indispensabile per continuare a crescere: se non sai chi sei è difficile sapere dove andare.
Nessun dolore è da leggere perché apre una finestra da un piccolo mondo moderno, vicino e lontano, che si prende a cuore battaglie di vinti, come quella del popolo Karen in Birmania, che studia Ortega y Gasset e che si batte per tante cose, dal mutuo sociale all’università pubblica. In mezzo a tutto questo c’è la vitalità dei giovani, di chi ha ancora speranza che la politica sia il giusto mezzo per eliminare le ingiustizie sociali e di chi vive la militanza sia con riti e doveri che con il piacere di far parte di una “comunione di intenti e di vita”. Troppo idealismo? Forse. E certo forse neanche noi faremo la rivoluzione, ma quanto ci divertiremo...