L’affetto con cui la rete ha risposto alla notizia della morte della poetessa Alda Merini è allo stesso tempo sia incredibile che rassicurante. Incredibile perché dilagante, vivo e sincero, manifestato da migliaia di internauti su blogs e social networks. Rassicurante perché indice di una passione culturale che sembrava quasi estinta di questi tempi nel nostro Paese.
Alda Merini era una persona strana: piccola, anziana, poco telegenica. Ma dotata di un’immensa cultura della vita che le consentiva di non dire mai cose banali. L’immenso talento poetico segnato dalla sofferenza e dalla voglia di rinascita le ha dato montagne di premi, arrivati soprattutto nel periodo successivo alla permanenza in manicomio. Era stata proposta per il Nobel. Nel 2002 era stata anche insignita del titolo di Commendatore al merito della Repubblica Italiana dal Presidente Ciampi. Tuttavia nei suoi confronti l’Italia è stata indegna, come per tanti altri intellettuali.
Soprattutto ora che il Paese sta attraversando una innegabile crisi morale e culturale, la perdita della coscienza della Merini si fa più pesante. Mi accorgo sempre più spesso come gli intellettuali veri stiano sempre più scomparendo. I media e la madre televisione in particolare ne sono la riprova. Gli intellettuali sono stati sostituiti dagli opinionisti, dotati peraltro di ben scarsi titoli. Una volta avevamo Pasolini che faceva televisione. Oggi?
A parte qualche comparsata in seconda serata la Merini è stata ignorata dalla TV. Peccato, su questo mezzo si sente la mancanza di persone che facciano pensare.
Alda Merini è morta ieri pomeriggio a Milano. Aveva 78 anni. Aveva scelto di vivere in una piccola casa sui navigli in condizioni disagiate. Per illustrare l'irrequietezza e la generosità del suo animo allego un’intervista significativa, rilasciata un anno fa.
«Sa perché sono entrata in manicomio? Perché la persona che amavo più di me stessa, mio marito, mi ha tradito, facendomi passare per demente. Hanno creduto a lui e non a me perché era più forte, era quello che portava i soldi a casa. Si è disfatto di me. Però a volte penso che se non avessi provato sulla mia pelle l’esperienza tremenda del tradimento, e quindi quella del “lager”, dopo non avrei scritto gran parte delle mie poesie più belle. Dopo tutto, volendo usare una metafora religiosa, se non ci fosse stato Giuda non avremmo avuto il Cristianesimo. Con gli anni ho capito che quel “mezzo” terribile, che ha sfasciato una famiglia, e che poteva distruggere la mia anima per sempre, è stato una linfa vitale per la mia poesia. Non avrei mai potuto scrivere la mia raccolta più bella, “La terra santa”. Ho odiato mio marito per il male che mi ha fatto. Uscita dal manicomio non ho raccontato nulla di ciò che mi era capitato né a lui né ad altri. Poi, dopo cinque anni, mi sono messa a scrivere “L’altra verità. Diario di una diversa”, che nessuno voleva pubblicare, visto che per la prima volta raccontavo gli orrori che subivamo noi matti. Avevo messo il dito nella piaga. Lui, il mio primo marito, era in fin di vita. Io, nonostante tutto, l’ho curato fino all’ultimo. Quando ha letto quelle pagine, piangendo mi ha chiesto di perdonarlo, non poteva credere che io fossi stata vittima, insieme a tanti altri, di tali soprusi».
(fonte dell'intervista: Resistenze Culturali)